di Roberto Zadik
Vent’anni fa moriva Arthur Miller, autore cupo ed esistenzialista, passato alla storia della Letteratura per capolavori come “Gli spostati” e “Morte di un commesso viaggiatore”, per quasi cinque anni il “marito ebreo” di Marilyn Monroe.
Il burrascoso matrimonio con la diva Marilyn Monroe ne ha amplificato a dismisura la fama, ma lo scrittore, sceneggiatore e drammaturgo ebreo newyorchese Arthur Miller è stato un talento geniale, per profondità, originalità e caustica critica della società americana, così come per una sua visione sorniona e disincantata della propria ebraicità.
Scomparso vent’anni fa, il 10 febbraio 2005 a 89 anni, dopo una vita lunga e irrequieta, questo autore enigmatico, dal contegno distaccato e dal fisico asciutto, nasconde una serie di curiosità inedite e assai interessanti ancora oggi.
Le opere importanti, come Morte di un commesso viaggiatore, diventato un film del 1985 con Dustin Hoffman, e la sceneggiatura de Gli spostati diretto nel 1961 da John Huston (ultimo film girato dalla Monroe e fra i western più atipici e “dark” della storia del cinema americano); l’identità ebraica vissuta con grande malessere; il complesso rapporto col padre e con le sue tre mogli. L’ultima moglie fu la fotografa austriaca Inge Morath che lo accompagnò fino al 2002, madre dell’attrice Rebecca Miller, sposata con l’acclamato interprete Daniel Day Lewis.
Ma che tipo di ebreo è stato Arthur Miller? Nato il 17 ottobre 1915 da una famiglia di origine polacca, un tempo benestante ma poi funestata dalla crisi economica a causa della Grande Depressione, come rivela un interessante articolo apparso sul Jewish Chronicle firmato da Natan Abrams, nonostante la sua famiglia non fosse particolarmente religiosa, egli crebbe in un ambiente profondamente ebraico che “aveva limitati rapporti con il mondo esterno” e si recava a pregare, durante l’infanzia, con il nonno che era assai osservante e ricopriva il ruolo di presidente della sinagoga.
Da bambino, Miller leggeva l’ebraico correntemente e, sulle ginocchia dell’adorato nonno, studiava i testi sacri e pregava. Nonostante questo, a causa del conflitto col padre Isidore, che spesso scherniva per la sua poca cultura, e per la crescente vicinanza alle élites intellettuali newyorchesi e alle idee di sinistra, Miller sviluppò un crescente “raffreddamento” verso la propria identità ebraica tanto da definirsi ateo e diventando insofferente verso qualsiasi regola.
Per questo, decise di uscire da quell’ambiente in un processo di progressiva “americanizzazione” come molti intellettuali della sua generazione, anche e soprattutto a causa dell’antisemitismo americano che durante la sua giovinezza, negli anni Trenta, subì in prima persona.
Assimilato e intellettuale, molto curioso, riservato e razionale, appassionato di letteratura, studiò alla facoltà di giornalismo e teatro e fu uno studente svogliato ma un ottimo atleta che però scelse la via impervia della cultura come missione di vita. A causa delle vessazioni antisemite e del progressivo disinteresse verso la religione, in molte sue opere l’elemento ebraico è decisamente sommerso se non inesistente, contrariamente ad altri grandi della letteratura ebraica d’oltreoceano come Philip Roth o Chaim Potok, anche se ci sono interessanti eccezioni in cui però la condizione ebraica viene descritta da Miller con sofferenza e un certo cinismo.
Molto ironico è il suo romanzo A fuoco del 1945 che narra le peripezie del protagonista antisemita, Lawrence Newman, che a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute somiglierà sempre di più a un ebreo da stereotipo, sbeffeggiato dai vicini per questo motivo e subendo come punizione l’ostilità che egli stesso nutriva verso gli ebrei. E poi l’opera teatrale Incidente a Vichy del 1964 in cui riflette sul nazismo e sulla mancanza di opposizione della società francese e europea alla messa in atto delle persecuzioni del regime e della Shoah.
Nella sua produzione, notevole e assai intensa è la pièce teatrale, fortemente autobiografica, Dopo la caduta che descrive la fine del matrimonio con la Monroe rappresentandone assai causticamente la personalità fragile, attraverso l’alter ego di Maggie.
Ma che rapporto ebbero, questo riservato intellettuale e la leggendaria attrice californiana che sognava di lasciare i panni della “bionda svampita” per essere finalmente presa seriamente come interprete di ruoli impegnati? Stando a una serie di resoconti, fu un rapporto inizialmente molto intenso e la Monroe si identificava seriamente nel popolo ebraico decidendo di convertirsi all’ebraismo e non solo per sposarsi con Miller. A questo proposito decise di affiggere una mezuzah allo stipite della sua porta di casa e di studiare i testi sacri e pare che si fosse convertita spontaneamente senza nessuna pressione da parte del marito. A questo proposito il Rabbino Robert Goldburg che ne seguì il percorso di conversione ricorda la sua sincera ammirazione per la tradizione ebraica, dalla razionalità del suo pensiero, all’etica e a quel senso della famiglia che la Monroe non aveva mai potuto avere. E ancora, la curiosità verso lo studio.
Piena di amici e conoscenti ebrei, dal regista Billy Wilder che la diresse in due film importanti nella sua carriera come Quando la moglie va in vacanza e A qualcuno piace caldo, all’attrice Susan Strasberg che divenne sua intima amica, la Monroe rimase ebrea fino alla sua prematura scomparsa a soli trentasei anni anche se Miller smontò con il suo consueto sarcasmo la sua nuova identità definendo la sua conversione “assai superficiale e transitoria, in una cerimonia celebrata davanti a un rabbino liberale riformato in meno di due ore “.
Grande amore iniziale e poi continui scontri e dissapori fra Miller e la Monroe che, prima della morte, si definì “un’atea di religione ebraica”; fino al divorzio e al bellissimo film Gli spostati. La ferita mai rimarginata di questa unione portò Miller al rifiuto di parlarne per oltre vent’anni, fino alle prime rivelazioni alla fine degli anni Ottanta in cui egli ricordò le incomprensioni, la tortuosa e lunatica personalità della Monroe e i ripetuti tentativi di avere un figlio assieme.
Fu molto difficile per Miller riprendersi ma la creatività e il terzo matrimonio con la fotografa Inge Morath furono di grande aiuto, nonostante la sofferenza per la disabilità del loro secondo figlio. Fra gli anni Settanta e Novanta continuò a pubblicare romanzi e opere teatrali, fino alla sua ultima opera ebraica Vetri rotti del 1994. La pièce fortemente drammatica torna sul tema della Shoah riflettendo su una coppia di ebrei newyorchesi che rimane traumatizzata leggendo quanto sta accadendo in Germania durante la Notte dei Cristalli e sulle crisi di coppia e interiori che questi eventi provocano. La moglie rimane talmente sconvolta da avere una paresi, mentre il marito svilupperà un crescente senso di angoscia e di malessere.
Autore esistenziale, dalle tematiche variegate e stimolanti, Miller offre domande rifuggendo facili soluzioni, rivelandosi un autore profondamente attuale e introspettivo, come dimostra una delle sue opere più toccanti Morte di un commesso viaggiatore, frecciata impietosa contro i miti di successo e ricchezza della società americana.
Foto in alto: Marilyn e Arthur Miller (wikimedia commons)