Sulle rive del Bosforo, cantando Lechà Dodì

di Vittorio Robiati Bendaud

 

Accolti dal Sultano, per 623 anni gli ebrei trovano rifugio all’ombra della Sublime Porta, malgrado lo statuto di Millat Ibrahim.
Ma non mancano periodi difficili e vessatorii. In terre crudeli, come la Libia, l’Iran o il Khanato di Bukhara

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C’era una volta l’Impero Ottomano, per secoli una “superpotenza”, una specie di Stati Uniti d’America della storia moderna. La discendenza di Osman I (1258-1326), capostipite della dinastia ottomana, governò territori sconfinati e numerose popolazioni per la stupefacente durata di 623 anni, dal 1299 al 1922. Tutto inizia ad ammantarsi di grandezza con il sultano Muhammad II il Conquistatore che nel 1453 espugnò Costantinopoli, facendo definitivamente capitolare l’Impero Bizantino. Multietnico, multiculturale, multilingue e multireligioso, l’Impero Ottomano raggiunse il suo massimo splendore a cavallo dei secoli XVI e XVII, in particolare durante il regno del sultano Süleyman, il celeberrimo Solimano il Magnifico. Per secoli l’Occidente cristiano fu minacciato e sotto assedio, talora sperimentando sudditanza bellica e culturale, costante erosione dei suoi confini orientali e meridionali e persino, talvolta, subalternanza politica, fino al leggendario assedio di Vienna, nel 1683. Le sorti iniziarono lentamente e progressivamente a mutare per le potenze europee soltanto grazie all’individuazione di nuove rotte commerciali extra-mediterranee; a innovazioni dell’ingegneria navale e bellica; al costante progredire del sapere tecnico-scientifico in Occidente.
Milioni di ebrei hanno vissuto per generazioni all’interno dei confini ottomani, da Algeri al Mar Caspio. Benché ovviamente sottoposti alla dhimmitudine e a quanto ne derivava, in generale essi furono tollerati e considerati parte integrante della società. Gli ebrei, al pari delle varie chiese cristiane colà dimoranti, costituivano un millet -“nazione”-, ossia una comunità religiosa tollerata, autonoma e auto-amministrata al proprio interno. Il termine millet è derivante dalla parola araba milla, sovrapponibile al termine din, ossia religione. Nel Corano, tuttavia, sembrerebbe che le espressioni al-Milla “la religione” o Millat Ibrahim “la religione di Abramo” siano da applicarsi in primo luogo -e specificatamente- alla fede islamica, e soltanto secondariamente, in alcuni specifici contesti, a ebraismo e cristianesimo. Il millet presso gli Ottomani era un sistema giuridico-religioso particolare, coincidente con una forma elaborata e più raffinata, con influssi bizantini, dell’istituto islamico della dhimma. Una volta nominato, il capo di ciascun millet esercitava per la propria comunità funzioni sia religiose sia politiche sia civili, rappresentando ufficialmente la stessa dinanzi al Sultano e ai suoi alti funzionari. Concepiti su basi etniche-religiose, tre furono i principali millet dell’Impero: quello armeno, governato dal Catholicòs – il Patriarca della Chiesa Armena-; quello greco, retto dal Patriarca Ecumenico di Costantinopoli; quello ebraico, rappresentato dal Gran Rabbino di Costantinopoli.
Stante questa generale attitudine più “tollerante” degli Ottomani, un’antica tradizione riporta che, quando il loro esercito attaccò nel 1324 la città bizantina di Bursa, la locale comunità ebraica si schierò con le truppe islamiche. Parimenti accadde a Gallipoli, Ankara e Adrianopoli (Edirne). I conquistatori musulmani invitavano gli ebrei, di città in città, a insediarsi entro i loro confini e a svolgere liberamente attività commerciali e imprenditoriali. Nel corso del XIV secolo giunsero così nei territori ottomani, richiamati dai loro correligionari là precedentemente stanziatisi, numerosi ebrei ashkenaziti che si stabilirono per lo più ad Adrianopoli. Costoro cercavano in questo modo di sfuggire a cruente persecuzioni nell’Europa centro-orientale, scatenate anche da accuse terribili e ignominiose, tra cui quella di “crimine rituale”, secondo la quale gli ebrei erano soliti nutrirsi nel periodo di Pesach del sangue di bambini cristiani. La Sublime Porta divenne così un rifugio sicuro per migliaia di ebrei europei, emarginati, reietti, espulsi o perseguitati in terra di Cristianità. Nel 1430 gli Ottomani conquistarono la città cristiana di Salonicco, l’antica Tessalonica. Anche lì approdarono alcune migliaia di ebrei ashkenaziti, in fuga dalla Baviera e da altre aree germaniche, che andarono a convivere -e, successivamente, in parte, ad integrarsi- con l’antica comunità ebraica romaniota, parlante greco, la cui storia arretrava all’età pre-romana.
Il 1492, anno del Gherùsh, ossia dell’espulsione degli ebrei sefarditi dalla Spagna (e successivamente dal Portogallo e dall’Italia meridionale), segnò una svolta drammatica, senza ritorno, nella storia ebraica. All’interno dei confini dell’Impero Ottomano si riversarono così, in relativamente poco tempo, centinaia di migliaia di esuli ebrei sefarditi e italiani. Costantinopoli, Salonicco, Izmir (Smirne) divennero i nuovi e più popolosi centri ebraici dell’Impero Ottomano, in contatto con le principali comunità ebraiche di tutto il mondo, in primis quelle sefardite di Livorno, Venezia e Amsterdam. La ben nota famiglia di stampatori ebrei Soncino (di origine ashkenazita), aprì così, ad esempio, stamperie a Istanbul, Salonicco e Il Cairo.
Ciò che rese gli esuli di Spagna, Portogallo e Italia meridionale molto appetibili e desiderabili agli occhi degli Ottomani, -come del resto avvenne anche per lo Stato mediceo e per la Serenissima Repubblica di Venezia- furono le competenze mediche e scientifiche di molti di loro, la conoscenza delle arti diplomatiche e giuridiche, l’abilità commerciale ed economica, l’operosità e la capacità imprenditoriale, una cultura linguistica plurale, il cosmopolitismo e la possibilità di avere contatti continui in tutto il Mediterraneo e oltre, con le altre comunità ebraiche; furono tutti questi elementi a generare l’appeal.
Fu così che, sotto gli Ottomani, la mistica e la letteratura ebraica rifiorirono. Il Sultano Süleyman concesse agli ebrei di stabilirsi in Galilea, permettendo inoltre la riedificazione della città di Tiberiade. Parimenti, egli fece edificare le attuali mura di cinta della Città Vecchia di Gerusalemme. Questa fu l’epoca di fulgidi pensatori e rabbini come Shemuel de Medina e Yosef Caro, l’autore dello Shulchàn ‘Arùkh, ancora oggi imprescindibile riferimento per la Halakhah; del mistico Yitzkhàq Luria e del poeta Shelomoh Alqabets, autore del celeberrimo inno sabbatico Lekhà Dodì; di Dona Gracia Mendes e del Duca di Nasso, mercanti e mecenati, entrambi attori di gesta leggendarie e rocambolesche.
Come ricordato, in seno all’Impero Ottomano, per 623 anni, gli ebrei furono dhimmi, sospesi in un amalgama instabile di protezione, inclusione, tolleranza, discriminazione e umiliazione. Prova ne fu che, a dispetto della generale e consueta tolleranza ottomana, nel 1586 il Qadi (giudice coranico) di Gerusalemme privò gli ebrei della città della facoltà di pregare nelle sinagoghe cittadine o presso luoghi tradizionalmente cari alla fede di Israele. Nel corso dei secoli, vari visitatori occidentali di Gerusalemme, come ci attestano alcuni loro resoconti di viaggio, rimasero molto turbati dalle angherie subite dagli ebrei di Gerusalemme e dal loro stato di grave indigenza. Ciononostante, la Sublime Porta rappresentò comunque, in qualche modo, un’alternativa e un rifugio anche per gli ebrei che subivano discriminazioni e persecuzioni -sistematiche e assai dure- nei territori islamici estranei all’Impero Ottomano. Il Khanato di Bukhara, verso la fine del XVII secolo, adottò misure ferree contro gli ebrei, interpretando lo statuto dei dhimmi nella maniera più crudele e discriminatoria possibile; parimenti accadde nello stesso periodo in Libia, ove vennero praticate in massa conversioni forzate. Vi furono poi casi di capi arabi che rapirono autorità ebraiche per cercare di ottenere riscatti esosi e persino impagabili oppure, come avvenne anche in Europa, gli ebrei venivano espulsi da alcune città per essere deportati in altre. Fu questo il caso di alcune comunità ebraiche yemenite nel corso del XVII secolo. Dolorosi fatti analoghi si verificavano anche nell’Iran sciita, ove lo Shah Ismail I (1502-1524) autorizzò la salita al potere del locale clero sciita che regolamentò e normò pervasivamente l’intera vita sociale attraverso una teocrazia che resistette dal XVIII al XX secolo, esasperando le disposizioni islamiche tradizionali nei confronti degli ebrei. In questo lungo arco temporale si assistette in Iran a fenomeni di conversioni forzate di intere comunità e a eroici fenomeni di criptogiudaismo, sia singoli sia comunitari: una sorta di “marranesimo” in terra di Islàm. Se, infatti, l’Inquisizione ispano-portoghese chiamò i convertiti ebrei “nuovi cristiani”, le autorità islamiche definirono gli apostati ebrei jadìd al-Islàm, ossia “nuovi musulmani”.