samantha ellis

Samantha Ellis e la memoria ebraico-irachena

Personaggi e Storie

di Davide Cucciati

Samantha Ellis, scrittrice britannica di origini ebraico-irachene, è una delle voci più interessanti della scena letteraria anglosassone contemporanea. Autrice teatrale, giornalista e saggista, vive a Londra, dove è nata nel 1975. I suoi genitori, ebrei originari di Baghdad, hanno lasciato l’Iraq in momenti diversi, portando con sé un bagaglio di esperienze, lingua e memorie che hanno profondamente segnato il percorso personale e creativo dell’autrice. Nel suo libro più recente, Chopping Onions on My Heart, Ellis affronta il rischio concreto della scomparsa della lingua giudeo-araba parlata dagli ebrei d’Iraq, intrecciando memoria personale, storia familiare e riflessioni sull’identità diasporica. Il libro è al tempo stesso un gesto d’amore, un archivio affettivo e una dichiarazione politica: salvare le parole, i gesti, i sapori di una cultura minacciata dall’oblio. In questa intervista per Mosaico, Samantha Ellis ripercorre alcune tappe del proprio percorso e condivide riflessioni profonde su memoria, appartenenza e trasmissione culturale.

Da quanto tempo la sua famiglia viveva in Iraq prima di lasciarlo? Si identificavano principalmente come ebrei, come iracheni o come qualcosa a metà?

Per quanto ne so, la mia famiglia (da entrambe le parti) viveva in Iraq da generazioni, risalendo fino a Nabucodonosor che portò gli ebrei in Iraq nel 597 a.E.V., anche se non ho modo di saperlo con certezza. Sicuramente entrambi i miei genitori sono nati in Iraq, mia madre nel 1951 e mio padre nel 1938. Si identificano come ebrei iracheni.

Ebrei iracheni arrivano in Israele da Cipro nel 1950

Quando i suoi genitori hanno lasciato l’Iraq, e quali circostanze li hanno spinti a partire?

La famiglia di mio padre lasciò l’Iraq nel 1951 insieme alla maggior parte degli ebrei iracheni (circa 125.000 persone), in un ponte aereo di massa verso Israele che alcuni chiamano Operazione Ezra e Neemia (dal nome dei profeti) e altri chiamano Operazione Ali Baba (dal racconto de Le mille e una notte). Lui aveva undici anni e partì con i suoi genitori e i fratelli maggiori. Non ho mai avuto una risposta chiara alla domanda sul perché così tanti ebrei abbiano lasciato il paese ed è una questione molto complessa e delicata all’interno della comunità. La famiglia di mia madre non partì allora. Lei nacque in quell’anno. Molti suoi parenti partirono per Israele ma suo padre, mio nonno, non era sionista e temeva che in Israele le cose sarebbero state difficili; sperava anche che la situazione si sarebbe calmata per gli ebrei rimasti in Iraq. Dopo il 1951, in Iraq rimasero circa 6.000 ebrei e la vita era molto diversa. Spesso era difficile essere ebrei ma ci furono anche momenti felici: mia madre ricorda quando imparava a nuotare nel fiume Tigri, mangiava patatine fritte con ketchup al circolo sportivo e le visite della diva ebrea irachena Salima Murad, il cui marito era un paziente di mio nonno.

Ma dopo la Guerra dei Sei Giorni, la vita per gli ebrei in Iraq divenne sempre più impossibile. Erano considerati una quinta colonna o spie di Israele. Tagliarono le linee telefoniche di tutte le case ebraiche e ovunque credevano di vedere spie. Il cugino di mia madre, Jamal Hakim, fu uno dei ragazzi e uomini impiccati dopo un processo farsa nel 1969, accusato di essere una spia sionista; in realtà sua madre era musulmana e lui era stato cresciuto come musulmano. Molti ebrei scappavano oltre il confine con l’Iran, aiutati dai curdi, ma mio nonno rifiutò di partire fino al 1970. In seguito, tentarono di fuggire ma furono fermati a un posto di blocco a Erbil, arrestati e imprigionati insieme a oltre cento altri ebrei che avevano provato a fuggire. Infine, furono rilasciati. Successivamente, mio nonno fu nuovamente arrestato e imprigionato per diversi mesi. Alla fine, fu liberato e nel 1971 ottennero il permesso di partire e arrivarono nel Regno Unito. I miei genitori si incontrarono nel Regno Unito e io sono nata qui nel 1975.

Sua nonna ha vissuto il Farhud (pogrom antiebraico avvenuto a Baghdad l’1 e il 2 giugno 1941, in cui furono uccisi oltre 180 ebrei e saccheggiate centinaia di case e negozi ndr). Che tipo di ricordi le ha trasmesso di quell’evento e del suo seguito?

Mia nonna aveva undici anni quando sopravvisse al Farhud. Ricorda che qualcuno venne a casa sua e disse che la folla era in arrivo e capì che un barcaiolo che lavorava per suo nonno (che era un parlamentare nel governo iracheno) li aveva traditi dicendo alla folla che quella era una casa ebraica. Il padre di mia nonna era molto malato e riusciva a malapena a camminare; quindi, partirono con sua madre e i fratelli, portandolo quasi di peso fino alla casa della zia. Il vicino musulmano di sua zia li nascose, insieme ad altri, e suo figlio sparò in aria per spaventare la folla. Furono molto buoni con loro, diceva mia nonna; fino all’anno scorso, quando è morta a 95 anni, ricordava con affetto e gratitudine quelle cure. Quando tornarono finalmente a casa, scoprirono che non era stata saccheggiata, perché anche i loro vicini musulmani avevano sparato in aria per tenere lontana la folla. Diceva sempre che dopo “tutto tornò alla normalità”.

Il rabbino capo di Baghdad Ezra Dangoor con la sua famiglia (1910). Wikipedia

Ha raccontato che quando dice di essere un’ebrea irachena le persone reagiscono spesso con confusione. Perché pensa che questa identità sia ancora così poco compresa?

Penso che ci sia ancora l’idea che tutti gli iracheni siano musulmani, il che è molto ingiusto verso tutte le altre comunità dell’Iraq, come i caldei, i mandei, gli yazidi, oltre ovviamente agli ebrei. C’è anche la percezione che tutti gli ebrei siano ashkenaziti; quindi, è difficile parlare di sé come ebrei del Medio Oriente o del Nord Africa.

C’è stato un momento preciso in cui ha capito che la lingua giudeo-araba stava scomparendo e che lei poteva essere una delle sue ultime “custodi”?

Ho sempre saputo che la lingua stava scomparendo ma è diventato davvero reale quando sono diventata madre, all’idea che non sarei riuscita a trasmetterla a mio figlio; è stato devastante, come se stesse arrivando un grande silenzio.

Ci sono parole, espressioni o piatti che per lei sono portatori di memoria in modo speciale, che rendono il passato improvvisamente presente?

Ho sempre amato i modi di dire iracheni; da bambina mi insegnarono a dire: thenbet el kalb, khellooha bel kasba, oo ukeb reb’een yom, tel’ooha oo ba’ada ma’eruja (“hanno messo la coda del cane in un tubo di canna da zucchero per quaranta giorni, e quando l’hanno tirata fuori, era ancora storta”) (Espressione proverbiale in giudeo-arabo iracheno che significa: “anche dopo tanti sforzi, la natura non cambia”. L’equivalente italiano potrebbe essere “il lupo perde il pelo ma non il vizio” o “chi nasce tondo non può morir quadrato, ndr). Era un detto molto lungo, quindi lo dicevo come un piccolo numero da spettacolo. Se da bambini avessimo fatto troppo rumore, i miei genitori avrebbero detto tash machy! (“mi esplode la testa!”) o jannu el jeej (“le galline sono impazzite”). Se mia madre avesse cucinato un pasto, avremmo detto ashteedek (“lunga vita alle tue mani”) e lei rispondeva awafi (“alla tua salute”).

Il titolo del libro viene da una frase: yethrem basal all ras efadi! (“stai tagliando cipolle sul mio cuore!”), equivalente all’inglese “rubbing salt in the wound”.

Molte delle parole sono legate al cibo. Scrivendo il libro, ho iniziato a rendermi conto che, come ha detto anche Claudia Roden, quando una comunità lascia il proprio Paese, il cibo è spesso l’ultimo elemento culturale a scomparire. Io non posso andare in Iraq e nemmeno i miei genitori possono tornarci; da tempo avere legami con Israele è un reato in Iraq e nel 2021 è diventato un reato punibile con la pena di morte. Quindi non posso andarci. Ma posso cucinare il cibo che le mie nonne e le mie antenate preparavano a Baghdad. Quando impasto la farina con le mani, pesto il cardamomo o arrotolo i datteri in palline, è una forma di viaggio nel tempo. Sto facendo con le mie mani le stesse cose che facevano loro, sento gli stessi profumi e assaggio gli stessi sapori. Volevo inserire delle ricette nel libro proprio per questo motivo e ho incluso quelle più importanti per me, tra cui la ricetta del kubba shwandar (kubba con barbabietole), quella di ciò che noi chiamiamo makhboose e altri chiamano baba tamar (biscotti ai datteri; mia madre ne ha sempre qualcuno in frigo, pronti da scongelare), zangoola (che Nigella Lawson definisce meravigliosamente “riccioli di pasta fritta”) e qualche altra.

Ha studiato arabo giudeo-iracheno all’Oxford School of Rare Jewish Languages. Cosa ha significato per lei quell’esperienza, oltre l’aspetto accademico?

È stato meraviglioso poter studiare la lingua come se fosse una qualsiasi altra lingua. Mi ha fatto sentire connessa, come se appartenessi a qualcosa ma è stato anche molto difficile.

Infine: sente che questo percorso, la ricerca, le interviste, il lavoro di preservazione, ha cambiato il suo senso di appartenenza? Non solo verso il passato ma anche verso il futuro?

Tutto il percorso di scrittura del libro è stato per me profondamente curativo, connettivo, nutriente, rasserenante; mi ha fatto sentire come se stessi riparando un anello in una catena che va molto, molto indietro nel tempo. Ora mi sento più vicina alla mia famiglia e ho un’idea più chiara di dove sto andando perché ho una comprensione più profonda delle mie origini.