Da sinistra, Moshe Bejski e Gabriele Nissim

Moshe Bejski e la speranza possibile

di Gabriele Nissim (tratto dal sito Gariwo.net)
Moshe Bejski, l’artefice del Giardino dei Giusti di Gerusalemme, in uno degli ultimi colloqui che ebbi con lui nell’ottobre del 2006 (pochi mesi prima della sua scomparsa), in una stanza di un ospedale a Tel Aviv si lasciò andare ad una riflessione che ho sempre considerato il testamento morale della sua vita, da cui sono partito per la scrittura del libro La Bontà insensata, (Mondadori) e per la stessa storia di Gariwo.

Bejski mi aveva ricordato in pochi minuti tutta la sua odissea in Polonia, da un campo all’altro, l’incontro con Oskar Schindler che lo salvò da una morte certa, e poi tutta la sua carriera da giudice in Israele che gli aveva fatto ritrovare il gusto della vita dopo il “tradimento” del suo Paese che “aveva abbandonato gli ebrei”.
Poi rimase in silenzio per qualche minuto, mi guardò negli occhi, e mi disse che doveva decidere ancora se essere ottimista o pessimista.
“E allora cosa ha deciso?”
“Non ho ancora deciso.”
“È possibile?”
“Sì è proprio così.”

Poi mi diede una risposta che si poteva interpretare in un senso positivo o negativo.
“Mi sono reso conto che anche dopo Auschwitz, nonostante tutti i nostri sforzi, il male continuerà a ripresentarsi nella storia e gli uomini non impareranno mai dai loro errori. Non dobbiamo farci delle illusioni. Tutto continuerà a ripetersi.
Eppure sono altrettanto convinto che ogni volta ci saranno degli uomini Giusti che con il loro coraggio affronteranno il male e salveranno il mondo. Come vogliamo chiamare questo paradosso? La potremmo definire l’unica speranza realista a cui ci è concesso di credere come esseri umani. Ecco perché è necessario continuare a raccontare le loro storie.”

Ho ripensato in questi giorni alle sue parole, perché quella sua incertezza sulla possibilità o meno di essere ottimisti o pessimisti può servire ad orientarci nella crisi che viviamo oggi.

Primo punto. Il meccanismo del male, come sapeva Moshe Bejski, tende a ripetersi, anche se gli uomini hanno alle spalle un retroterra di memoria storica e culturale che dovrebbe impedirlo. Infatti il ricordo delle più grandi tragedie del passato non è mai sufficiente per spronare gli uomini a non cadere negli stessi errori. Anche se la memoria dei peggiori crimini, come la Shoah, venisse ricordata in ogni angolo del mondo con i migliori docenti, intellettuali, artisti, registi, pittori, compositori, essa non avrebbe mai una funzione salvifica. Il motivo è duplice. In ogni situazione il male si esprime in modalità diverse e gli uomini non lo riconoscono nella sua genesi. Se ne accorgono soltanto quando vedono le macerie e il male si è compiuto. Nella maggior parte dei casi sono inascoltati i visionari che sanno leggere in anticipo la realtà o che cercano con i loro comportamenti esemplari di bloccare il treno dell’umanità che va in una direzione sbagliata.
In secondo luogo, ogni nuova generazione è sempre libera di scegliere da capo. Anche la libertà non è la garanzia per una scelta verso una buona direzione. La libertà permette di fare il contrario.

Ecco la ragione del pessimismo di Bejski.
Ciò che invece si può scoprire nel corso degli eventi è il livello di responsabilità degli esseri umani, perché nella storia non c’è mai una mano invisibile che decide, non c’è un Dio che determina, e anche la natura in cui si agisce la si può interpretare con la conoscenza scientifica.
Nel caso di un genocidio possiamo individuare le responsabilità dirette e le complicità. Chi ha progettato un massacro, chi lo ha assecondato per opportunismo, chi è stato a guardare, chi poi ha cercato di nascondere le prove delle suo coinvolgimento attraverso il negazionismo.
Invece per una catastrofe naturale come una pandemia occorre chiedersi, come osservava Agnes Heller, non cosa è stato fatto, ma cosa non è stato fatto. La responsabilità in questo caso è la negligenza che ha impedito di prendere delle misure adeguate per frenare il contagio.

Per esempio, dobbiamo domandarci come mai la Cina in un primo momento ha nascosto la gravità della situazione all’interno dei suoi confini. Una chiusura immediata di Wuhan, secondo uno studio recente dell’Università di Southampton, avrebbe ridotto il contagio del 95%, invece il sindaco della città il 21 gennaio aveva organizzato per le strade grandi banchetti per celebrare il capodanno cinese, mentre in quei giorni milioni di cinesi erano liberi di viaggiare all’estero, senza che dalla Cina stessa venisse un monito a rimanere nel Paese.

In secondo luogo, una informazione rapida al mondo intero, come scrive Sandro Modeo in un bel saggio sul Corriere, ci avrebbe spinto a prendere delle misure più efficaci. Si sapeva per esempio che il 65% dei medici dell’ospedale di Wuhan erano stati contagiati e questa informazione avrebbe potuto essere raccolta per esempio negli ospedali del nostro Paese, dove i medici non sono stati protetti e sono diventati veicoli del contagio per gli stessi pazienti.

La pandemia non mette però solo in evidenza le responsabilità nella gestione sanitaria, ma può scatenare dei veri mostri politici, come già possiamo intuire oggi guardando il panorama internazionale.
In primo luogo l’abbandono di milioni di uomini che vivono nei campi profughi in Siria, Turchia, Yemen o dei Paesi più poveri dell’Africa e dell’America Latina che non possiedono ventilatori e attrezzature mediche adeguate. Si può creare una terribile distinzione tra gli quanti hanno diritto di essere curati e coloro che sono invece considerati superflui e secondari. Un genocidio nasce da un programma consapevole di annientamento, nel caso di una pandemia una chiusura nazionalista (come accadde con l’America di Trump) può portare ad una indifferenza per il destino dei più poveri. Non è solo una politica di divisione e di esclusione irresponsabile, ma come scrive il 13 aprile il New York Times in un editoriale della redazione, tale indifferenza nasce da una visione miope, perché il collasso delle economie di questi Paesi inciderà nella fornitura di materie prime e la diffusione del virus lo riporterà di nuovo nei Paesi più avanzati.

E poi la stessa democrazia è oggi pericolo. Dittatori e populisti, come sta accadendo in Turchia, in Egitto, in Iran e in Ungheria approfittano della situazione per rafforzare un potere autoritario e limitare i diritti democratici con metodi tradizionali; c’è però oggi un rischio di tipo nuovo, come sottolinea l’israeliano Yuval Harari, poiché il controllo dall’alto della vita delle persone con applicazioni attraverso i cellulari può generare delle tentazioni totalitarie, se nella lotta al virus non si dà valore alla responsabilità personale e all’autonomia consapevole dell’individuo, fondamento della democrazia liberale.

Secondo punto. In ogni situazione estrema appaiono delle nuove categorie di uomini Giusti che sono il baluardo della resistenza a un male politico o a un male naturale.
Non agiscono come se fossero degli anticorpi di un vaccino che impediscono la genesi del male, ma agiscono di rimessa cercando di porre un argine ad una catastrofe nell’ambito delle loro responsabilità. È una qualità nascosta che emerge sempre nei momenti peggiori. Per alcuni è come un scatto che cambia le loro vite. Non a caso scopriamo che persone che nella normalità non avevano mai mostrato evidenti caratteristiche altruistiche, poi sono in grado di cose impensabili di fronte alle emergenze – come di contro ci sono coloro che si comportavano prima in modo encomiabile e che invece falliscono come esseri umani di fronte ad un ribaltamento della situazione, come osservava Hanna Arendt quando raccontava che in Germania da un giorno all’altro molti avevano cambiato i loro costumi morali.

Ci sono persone invece che nei periodi più bui fanno persino il contrario di quello che pensano o vanno contro la loro ideologia politica, come ad esempio l’antisemita polacca Zofia Kossak in Polonia, che salvò gli ebrei al momento dell’occupazione nazista, dopo avere chiesto per anni la loro espulsione, o il fascista Giorgio Perlasca, che fece la stessa cosa a Budapest.
È un meccanismo interessante, di cui ragionava lo scrittore Vasilij Grossman (quando parlava di Bontà insensata), che ci mostra che in alcuni esseri umani esiste una sensibilità particolare che esplode in modo inaspettato quando l’umanità è in pericolo.

Non ha nulla a che vedere con la scelta di un sacrificio personale, di una rinuncia in nome del bene o dell’aldilà, ma è un comportamento che nasce quando una persona avverte che la sofferenza dell’altro ferisce la propria personalità. Una persona reagisce così quando avverte che la propria potenza ( il conatus che per Baruch Spinoza spinge gli uomini ad agire al meglio per la propria sopravvivenza) viene meno quando gli esseri umani sono minacciati. Aiutare, darsi da fare, diventa la difesa di se stessi, perché l’altro in quel momento è diventato parte di sé a cui non si può rinunciare, pena la perdita della propria forza.

Da questa lettura particolare delle reazioni umane di fronte al male estremo Moshe Bejski ragionava su come la fenomenologia dei Giusti fosse un continuum nella storia dell’umanità, quasi una sorta di staffetta dove il testimone passava di generazione in generazione ogni volta che l’umanità era in pericolo.
Era dunque un concetto sempre in movimento, che si rinnovava in continuazione di fronte ad ogni evento con caratteristiche diverse. Per questo non poteva essere confinato soltanto alla storia della Shoah.

Moshe Bejski ricercava, catalogava, ordinava le storie dei Giusti della Shoah non per creare un archivio fine a se stesso, ma perché i loro racconti diventassero un esempio per le generazioni future. Aveva capito che i Giusti non erano solo coloro che avevano salvato gli ebrei, ma gli uomini di qualsiasi fede o Paese che emergevano in tutte le circostanze dove la dignità umana rischiava di soccombere. Il suo lavoro aveva un senso se altri uomini replicavano in situazioni diverse lo spirito di coloro che erano ricordati nel giardino dei giusti di Gerusalemme. Era per questo contento di scoprire storie non solo legate al passato della guerra e si immaginava quelle future che avrebbero reso il mondo migliore.

Terzo punto. Le storie degli uomini Giusti rappresentano sempre la speranza possibile per la salvezza del mondo quando gli avvenimenti prendono una cattiva direzione. Hans Jonas scrisse che durante la Shoah che non ci fu nessun Dio che venne in soccorso degli ebrei, ma gli unici miracoli li fecero coloro che salvarono delle vite nei ghetti, nei campi, nelle case persino nei campi di concentramento. È questa la fede che permette di affrontare le situazioni più difficili. Contare sulla capacità di resilienza degli esseri umani e su quella forza degli individui che ogni volta si manifesta in un modo inaspettato. Era questo il paradossale ottimismo di Moshe Bejsky che vedeva nei Giusti l’ancora a cui appoggiarsi, pur consapevole che gli uomini avrebbero continuato a sbagliare e che il male avrebbe continuato a colpire l’umanità.

Mi ha molto colpito il messaggio pasquale di Papa Francesco, che ricordando la Resurrezione di Cristo, l’evento sovrannaturale che più di ogni altro, ci porta ad immaginare che nel momento più buio si possa alla fine presentare un Dio che ci salva. Francesco ha poi chiesto ai popoli e alle nazioni di abbandonare ogni guerra, ogni egoismo, di venire in soccorso dei Paesi poveri, di azzerare i loro debiti e di farsi contagiare dall’amore per gli altri in una battaglia globale che unisca tutta l’umanità contro la pandemia. Ha ricordato che il diritto alla speranza ci viene da Dio, “un dono del cielo non potevamo procurarci da soli…perché la speranza di Gesù immette nel cuore la certezza che Dio sa volgere tutto la bene, perché persino dalla tomba fa uscire la vita”, ma poi si è affidato alla responsabilità degli uomini Giusti in carne ed ossa che avrebbero dovuto realizzare questa speranza su questa terra.

Anche lui si è affidato, come Bejski, al bene possibile e inaspettato, poiché come aveva compreso bene Etty Hillesum sono gli uomini con le loro azioni che tengono accesa la speranza di Dio. Senza di loro non si potrebbe immaginare nemmeno la Resurrezione di Cristo. Ecco perché gli uomini sono i soli a fare dei miracoli.

Quarto punto. Chi sono i Giusti oggi nella pandemia e perché dobbiamo raccontare le loro storie? È un compito complesso e difficile su cui ragionare poiché tutta l’umanità da un giorno all’altro si è trovata di fronte a delle nuove scelte etiche. Moshe Bejski avrebbe probabilmente detto che la valorizzazione di alcune storie ci potrebbe aiutare a ritrovare la speranza e a indicarci la possibilità di un agire responsabile.
Possiamo immaginare uomini Giusti che si batteranno per la collaborazione internazionale e per non lasciare indietro i Paesi più poveri e i diseredati; uomini che si batteranno contro i nazionalismi che vorrebbero decidere chi salvare e chi abbandonare al loro destino; scienziati e medici che avranno il coraggio di dire la verità contro ogni censura e metteranno le loro ricerche al servizio dell’umanità; scienziati che indagheranno sulla genesi del virus in Cina; uomini che impediranno che ci siano dei politici che usino questa emergenza per minare le libertà democratiche, medici e uomini che non accetteranno che gli anziani possano venire sacrificati; uomini che in contesti di guerra lavoreranno per la conciliazione e per rompere le barriere che impediscono una lotta comune contro l’epidemia; uomini che impediranno che la paura della malattia e lo spirito di sopravvivenza si possano trasformare in forme di odio e di contrapposizione nel linguaggio politico, nei social e nelle relazioni umane.

Moshe Bejski diceva che giudicare è qualche volta un arduo compito per gli esseri umani, perché solo un Dio potrebbe entrare nella testa delle persone e comprendere la complessità delle scelte etiche. Per questo egli partiva da un grande spirito di umiltà ogni volta che presiedeva la Commissione dei Giusti di Yad Vashem. Non amava i dogmatici che sputavano sentenze o che cercavano la perfezione impossibile su questa terra. Era cauto e preferiva sempre accettare l’ambiguità del bene e riconoscere la fragilità degli esseri umani. Sapeva sempre di potere sbagliare ed era pronto a cambiare idea.

Ciò vale anche per Gariwo, che non vuole avere la pretesa di un giudizi affrettati soprattutto in un periodo dove orientarsi è molto difficile.
Per questo vogliamo aprire un confronto ampio sulle scelte etiche di oggi e sulla ricerca dei giusti al tempo del Coronavirus.