Luciana Sinigaglia: «il mio ritorno all’ebraismo dei padri»

di Marina Gersony

A 95 anni si è messa a studiare l’ebraico e le materie ebraiche per tornare nella Comunità di cui si è sempre sentita parte integrante, fin dall’infanzia.
A Mantova, subì le Leggi razziali e il “battesimo forzato”.  Ora il ghiur e il mikvé a Milano

Ti apre la porta e ti dà il benvenuto con voce sottile. Ti stava aspettando per un’intervista concordata da giorni. Il fisico esile e asciutto emana forza e determinazione nonostante l’età avanzata, simile a quegli alberi secolari e nodosi che raccontano storie di vento e di pioggia, di sole e tempeste, di stagioni che scorrono. La osservi mentre procede prudente e ti invita a seguirla in cucina: «Lei beve caffè? Ecco, la caffettiera è sul fornello, ho preso dei pasticcini, spero li gradisca». Ci accomodiamo nel salotto luminoso di un ampio appartamento a Milano. Pochi soprammobili, arredamento essenziale, tutto è lindo e curato. Luciana Sinigaglia ha 95 anni e una vita intensa alle spalle che lei definisce “agitata”.
«Un giorno, qualche tempo fa, mentre viaggiavo sull’autobus 61, ho conosciuto Grazia Goldstaub che lavora al CDEC. Ci siamo messe a chiacchierare e abbiamo simpatizzato. Le sono profondamente grata per tutto quello che ha fatto per me. Ho iniziato ad andare con lei al Tempio di via Guastalla. Mi sentivo bene, era un ritorno a casa. Ho venduto il mio appartamento di Nizza e ho fatto una donazione al CDEC, 75mila euro. Ho dato anche tutte le foto e la documentazione della mia famiglia. Poi ho iniziato a studiare l’ebraico con Yardena D’Urbino e l’ebraismo con Sara Ascoli. Un’esperienza intensa. Con Rav Arbib mi vedo ogni sabato al Tempio. E così ho deciso di fare il mikveh. Adesso sono di nuovo ebrea. Ma no, cosa dico, io ebrea lo sono sempre stata».

Luciana Sinigaglia è nata a Mantova il 12 dicembre del 1923. Padre ebreo e madre cattolica non osservante («era figlia di un mangiapreti»), si è sempre sentita ebrea nel profondo dell’anima e lo era “di fatto” se la storia non ci avesse messo lo zampino: «A Mantova c’era una Comunità ebraica importante – racconta -. I miei parenti da parte paterna appartenevano a un’antica famiglia ebraica del mantovano. Io ero regolarmente iscritta alla Comunità. Con le Leggi razziali i tempi erano diventati molto pericolosi per noi ebrei. Era il 1939 e alcuni parenti di mio padre hanno insistito per farmi battezzare. Volevano preservarmi dalla furia nazista».
«Avevo 16 anni. Ho sofferto moltissimo per quella decisione. Ero e mi sentivo ebrea, e poi figuriamoci se volevo avere a che fare con i preti. Ma non avevo scelta. Le cose non sono andate subito lisce. Il prete non aveva retrodatato il certificato di battesimo che così non aveva alcun valore. Sono dovuta tornare a Milano con mia madre per cercare di arrivare alle alte sfere della Chiesa. Alla fine siamo riuscite a metterci in contatto con Monsignor Aldini a Mantova che ha convalidato il certificato dove risultavo battezzata dalla nascita nella Chiesa di Sant’Andrea. A quel punto i fascisti mi hanno lasciata in pace. Senza contare che parlavo benissimo il tedesco. A scuola, durante l’ora di religione, i miei compagni mi suggerivano le risposte. Ma io pensavo con nostalgia a quando andavo al Tempio a Mantova o a Milano. I miei famigliari non erano osservanti però facevano Kippur, avevano paura del destino. Sono consapevole di essere stata molto fortunata a salvarmi».

IL MIKVEH
Il 10 aprile scorso Luciana ha dovuto affrontare l’esame di conversione con Rav Alfonso Arbib e due rabbini di Torino. Subito dopo c’è stato il mikveh: «Alla mia veneranda età non è stata una passeggiata – osserva con una punta di ironia -. Non potevo appoggiarmi da nessuna parte, e poi c’era tanta gente che mi guardava mentre ero lì nuda con addosso un telo. Per fortuna la signora Goldstaub, insieme all’assistente del Rabbino e alla mia badante, mi hanno sostenuta per scendere i gradini. Infine dovevo andare con la testa sott’acqua e Grazia Goldstaub mi ha aiutata. A un certo punto non respiravo più e credo che Rav Arbib si fosse preoccupato. Mi chiedeva continuamente: “Sta bene? Sta bene?”. Forse pensava che fossi annegata…». Alla Signora Luciana, il senso dell’umorismo non manca di certo.

Luciana è orgogliosa della sua famiglia e della sua appartenenza al popolo ebraico. Il suo albero genealogico vanta nomi e cognomi illustri che raccontano di spostamenti, fughe, matrimoni e antiche erranze. Nonni e bisnonni di una gens risalente ai secoli scorsi: dalla ricca Enrichetta Mortara ammogliata a Salomone, abile commerciante di tessuti, ad Alfonso Levi, marito di Matilde Sègre: «Lo scriva con l’accento, mi raccomando, il nome deriva dal fiume Segre (in francese Sègre) che scorre a sud della Francia e a nord della Spagna. Lui era notaio, lei una ricca ereditiera…». E sembra di vederli questi parenti lontani con le loro vite e vicissitudini. «Poi c’era la famiglia Sinigaglia – prosegue Luciana appassionata -, tre figli maschi e due figlie femmine, mentre nella famiglia di Alfonso Levi le femmine erano tre e il maschio uno. A un certo punto i due fratelli Sinigaglia hanno sposato due delle sorelle Levi». Difficile starle dietro nella ricostruzione di un puzzle famigliare che si dipana come una ragnatela nel tempo. Racconta del nonno Guido Sinigaglia, magistrato autorevole, imparentato con Lodovico Mortara, ministro della Giustizia con il primo governo Nitti: «a Mantova gli hanno dedicato la Galleria Mortara». E poi racconta dell’Angiolino Sègre, padre di Matilde, che faceva il pedlar, il venditore ambulante: «andava con la carrozza trainata dai cavalli e trasportava padelle, aghi, utensili e pesce nelle campagne del cremonese e del mantovano. I contadini mangiavano polenta e acciughe. C’era la carestia, erano gli anni intorno al 1848, c’erano gli austriaci e non avevano più soldi. Angiolino si faceva pagare con i raccolti e aveva riempito quella che ancora oggi si chiama la Casa delle Cento Finestre. Così ha creato una fortuna. I Sinigaglia non erano dei lavoratori, tranne mio nonno, il magistrato Guido. Sua moglie Olimpia, mia nonna, era bellissima e aveva una bella dote, ma era vissuta in una famiglia di spreconi. Suonava bene il piano, faceva concerti. Partecipava a salotti letterari. Aveva educazione, ma non era una brava donna di casa. Era una spendacciona, i soldi non erano mai abbastanza. Mio padre Ernesto andava a scuola ma i suoi non pagavano le rette. Li ho fatti soltanto io i soldi (ride, ndr). Così fu costretto ad andare a Mantova dagli zii per occuparsi anche lui di tessuti. Mio padre Ernesto ha poi sposato Laura Ponchiroli, il padre era un socialista anticlericale, ma si sentiva profondamente italiano, perché aveva fatto la guerra in Libia e la guerra del ’15 – ’18. Mio padre è morto quando avevo dieci anni, da bambino aveva avuto la tisi. Allora mia mamma è tornata dai Ponchiroli a Viadana, in provincia di Mantova. Sua sorella non mi amava, per lei contavano soltanto i suoi figli. Io invece ero più educata, nelle case dei Mortara e dei Levi l’educazione era severa ma ottima. Pur essendo cattolica, anche se non praticante e una convinta mangiapreti, mia madre voleva essere sepolta al Cimitero Ebraico di Verona, insieme a mio padre».

UNA VITA «AGITATA»
In seguito Luciana è diventata ragioniera, si è iscritta alla Bocconi ma dato che cadevano le bombe ha pensato che «meglio una ragioniera viva che una dottoressa morta: sono rimasta con la mamma e i Ponchiroli a Viadana. Lei lavorava nell’industria alimentare paterna, ma sua sorella, la zia cattiva, voleva lasciare tutto ai miei cugini… Mia madre è stata malissimo per questo motivo. Io allora le ho detto di mandare tutta la sua famiglia a quel paese e sono andata con lei a Milano. Mi avevano diseredata, mi sarei messa a lavorare, volevo essere indipendente e avere una vita mia. Io non porgo l’altra guancia».
Spirito indomito e ribelle, Luciana si è messa a imparare l’inglese, fatto per nulla scontato in un’epoca in cui le donne erano relegate dietro i fornelli: «Sono andata a lavorare alla Camera di Commercio Britannica in corso Europa e lì ho conosciuto quelli della Price Waterhouse con sede in piazza dei Filodrammatici. In seguito mi hanno mandata negli uffici di Roma ma a me Roma non piaceva e non mi piacevano i romani. Avrò avuto 35 anni. I romani mi chiamavano la Bersagliera perché ero molto attiva. Così sono tornata a Milano e ho trovato lavoro alla Compass di Mediobanca. Sono diventata capo amministrativo. Ero severa, i dipendenti dovevano rispettare le regole, ero brava a organizzare. Poi ho cambiato di nuovo lavoro in seguito a un litigio. Sono tornata alla Price Waterhouse e ho chiesto di avere un computer. All’epoca i computer li avevano soltanto in Inghilterra. Alla Price Waterhouse erano tutti ebrei e venivano da ogni parte del mondo. Con il computer ho organizzato il lavoro per Milano e poi, visto il successo, mi hanno chiesto di organizzare l’ufficio di Roma e non solo. Alla fine avevo dieci persone che lavoravano per me. Ero diventata Direttore Amministrativo, una controller, una dirigente. A 67 anni sono andata in pensione ma ho continuato a lavorare in un Ufficio Tributario in San Babila. Quando è morta mia madre avevo 77 anni, lei ne aveva 102. Appena è mancata ho fatto un viaggio in Irlanda, mi sentivo in un certo senso sollevata: certo, le volevo bene, ma era una donna che mi aveva oppresso per tutta la vita a causa del suo pessimismo. Ho lavorato fino a cinque anni fa e ho guidato la mia Mini Cooper. Poi mi sono ammalata e ho dovuto smettere di guidare e lavorare».
«L’amore? Non avevo tempo per l’amore, non mi interessava. E poi c’era mia mamma di cui dovevo occuparmi. Non mi piaceva nessuno e nessuno mi faceva la corte. Si spaventavano perché ero più sveglia di loro (ride, ndr). Faccio paura (ride, ndr)».
Diavolo di una donna!