“Io, Robert Falco, giudice ebreo a Norimberga”

di Sarah Parker

Tzèdeq, tzèdeq tirdòf Giustizia, giustizia perseguirai

Ottobre 1946. Anche stavolta, per uno strano caso del destino, è il giudice supplente francese Robert Falco a entrare per primo, come di consueto a ogni udienza, nell’aula del Tribunale di Norimberga. Il processo sta finendo, è durato un anno. L’ordine d’ingresso con cui gli otto giudici entrano in aula è dettato da questioni pratiche, dato il poco spazio a disposizione. Ogni volta, al loro apparire, tutti i presenti si alzano in piedi. Imputati compresi. Toccherà proprio a lui, il magistrato ebreo francese Robert Falco, pronunciare il verdetto di condanna a morte per Hermann Goering, il numero due di Hitler. «È con una punta di emozione che pronunciai la frase in inglese, ‘Death by hanging’, morte per impiccagione; e credo di non sbagliare nel dire che anche tutti gli altri giudici abbiano provato una forte emozione, ad eccezion fatta, forse, dei colleghi sovietici che hanno una psicologia più misteriosa», scrive nelle sue memorie. Robert Falco ricorda quel momento in maniera vivida ma sobria, com’era nel suo stile. E accenna con garbata ma spietata ironia alla “misteriosa psicologia” dei russi: il giudice titolare sovietico a Norimberga, Iona Nikitcenko, aveva infatti preso parte, sempre in qualità di giudice, ai processi sommari delle Grandi Purghe staliniane costate la vita, si stima oggi, a circa 225.000 oppositori del regime sovietico.

Com’è noto, il Processo di Norimberga, avvenuto tra il novembre del 1945 e concluso nell’ottobre del 1946, ha segnato una tappa fondamentale nella storia delle Corti dei Tribunali Militari Internazionali. Una pietra miliare nella giurisprudenza. Pochi sanno invece che una delle anime vibranti nel cuore di quei terribili verdetti passati alla storia portava un nome, quello di Robert Falco. A raccontarci la sua storia, davvero poco conosciuta, è Juge a Nuremberg – Souvenirs inedits du proces des criminels nazis (Editions Arbre Bleu, prefazione di Annette Wieviorka, pp 174, 20,00 euro), un memoir autobiografico in forma di diario in cui l’autore rievoca giorno per giorno tutte le fasi del processo. Un libro la cui pubblicazione è stata accidentata e tortuosa a causa forse di una certa ostilità dimostrata da un importante politico francese, Renaud Donnedieu de Vabres, Ministro della Cultura e della Comunicazione dal 2004 al 2007, un nipote di Henri Donnedieu, il giudice francese a Norimberga che affiancava Falco. Henri Donnedieu era un accademico, aveva attraversato indenne il Governo di Vichy e del Maresciallo Petain, e nel corso del leggendario processo avrebbe fatto di tutto per favorire condanne mitiganti e comminare pene più lievi e meno definitive ad alcuni gerarchi nazisti come Julius Streicher e Hans Frank conosciuti prima della guerra. A ben guardare, a Norimberga il passato di alcuni tra gli avvocati e gli otto giudici presenti era lungi dall’essere immacolato, un passato impastato di simpatie naziste e tendenze razziste. Persino il giudice americano, John J. Parker era di vedute discutibili rispetto al concetto di uguaglianza e universalità (“La partecipazione del negro in politica è una fonte di male e pericolo per entrambe le razze -caucasica ed afro-americana- e non è auspicata affatto dall’uomo saggio”, aveva dichiarato pubblicamente)

Nelle sue memorie, Robert Falco racconta come Henri Donnedieu de Vabres (a sinistra nel disegno di Jeanne Falco) avesse cercato in tutti i modi di risparmiare la pena capitale a Wilhelm Frick, Alfred Jodl e Arthur Seyss-Inquart. Frick: uno dei principali estensori delle Leggi razziali contro gli ebrei a partire dal 1935, Reichsprotektoren di Boemia e Moravia. Il Generale Jodl: principale consigliere strategico di Hitler e firmatario della resa senza condizioni del 7 maggio del 1945 di fronte ad alti ufficiali russi e francesi. Seyss-Inquart: nazista austriaco poi Vice governatore della Polonia e Commissario dei Paesi Bassi, responsabile di migliaia di deportazioni di Ebrei e di fucilazioni di ostaggi. Per il Generale Wilhelm Keitel infine, Capo della Wehrmacht, non potendone impedire la condanna a morte, Donnedieu aveva richiesto il ricorso al plotone d’esecuzione, ossia la morte per fucilazione, considerata più dignitosa per un militare che non l’impiccagione, richiesta che venne negata. E ancora: Falco annota con costernazione di trovarsi a dover ascoltare le arringhe di avvocati tedeschi, il più delle volte nazisti dichiarati, il cui onorario era stato concordato dal Tribunale e pagato con fondi stanziati dagli Americani. Non a caso, a processo concluso, mentre i giudici inglesi torneranno da eroi nella madrepatria, accolti da onori e ricevimenti di Stato, Henri Donnedieu salirà da solo a bordo di un treno di ritorno Parigi. All’arrivo non troverà nessuno ad aspettarlo. I membri del Ministero di Giustizia ne “archivieranno” la memoria.

Chi era Robert Falco

Nato in una famiglia ebraica secolarizzata ma attenta alle tradizioni e alla celebrazione delle feste ebraiche, Robert era figlio di un facoltoso gioielliere appartenente alla buona borghesia che durante la guerra franco-prussiana del 1870-1871 si era guadagnato la Legion d’Onore. Ai primi del Novecento, il padre era stato anche presidente della Chambre de Commerce e tra gli organizzatori dell’Exposition Universelle a Parigi. I suoi avi erano stati architetti e militari pluridecorati presso le corti dei reali di Belgio e Francia. Nato il 26 febbraio 1882 a Parigi, questo piccolo uomo dai grandi occhi azzurri e un sorriso dolce dissimulato sotto i folti baffi, aveva ascendenze italiane, torinesi e coltivava tre grandi passioni: gli spaghetti, le uova alla coque e la musica classica. Fin dagli esordi di carriera, Falco viene descritto come “un oratore brillante, dotato di qualità eccezionali. Molto sicuro di sé, un soggetto destinato a un grande avvenire”. In realtà Robert Falco era un uomo schivo, ai limiti della modestia, chi lo conosceva realmente sosteneva che non si sia mai reso conto della propria levatura intellettuale, morale, umana. Era scevro da forme di vanità e pur consapevole del proprio valore non ne aveva mai fatto sfoggio. Una carriera punteggiata di successi, Robert veniva descritto dai colleghi come un “magistrato dotato di rara finezza d’animo, quasi spirituale”, “uomo dall’eloquenza elegante, parlamentare”. E difatti, Falco diventa ben presto procuratore generale. Nominato a Parigi nel 1926 prende parte a tutti i più grandi procedimenti penali dell’epoca. Si sposa con Alice Levy dalla quale ha due figlie, Annette e Denise, e il futuro sembra sorridergli. Ma improvvisamente, Alice muore di una polmonite fulminante e rimasto vedovo, nel pieno della sua ascesa professionale, Falco si trova col cuore spezzato e due bambine da allevare.

Diventa giudice presso l’Alta Corte di Giustizia, successivamente viene nominato alla Corte d’Appello di Parigi, carica che ricopre sino all’entrata in vigore del vergognoso decreto del 3 ottobre 1940 nel quale si sancisce l’espulsione di tutti gli “Israeliti” dalle cariche pubbliche. “Falco è ammesso a cessare le sue funzioni”. Con questa formula perversa e ipocrita, Robert viene costretto al pensionamento anticipato. È incredulo, sotto choc, fa il diavolo a quattro. Scrive accorati appelli, fa ricorso elencando i suoi servigi di cittadino francese, la sua lealtà, il servizio civile e militare. Nulla. Lo Statut des Juifs viene applicato a tutti gli ebrei, nessuno escluso. Sotto questa scure cadono un totale di 48 magistrati israeliti e 25 supplenti dei giudici di pace. La Commissione del Governo di Vichy deputata alla Questione Ebraica, in un rapporto ufficiale annota con soddisfazione il 20 maggio del 1941: “L’eliminazione dei magistrati ebrei è oggi terminata”. Sarà il Maresciallo Pétain in persona a firmare tale decreto, il 18 dicembre 1940. Robert Falco e tutti i colleghi ebrei vengono esclusi dall’esercizio delle proprio funzioni e di fatto dalla vita professionale. Fatta eccezione per qualche messaggio individuale, non si registrano proteste pubbliche né sollevazioni, né dissensi ufficiali. La qual cosa va sottolineata perché altrove non si verificherà un atteggiamento così acquiescente e remissivo. Tutt’altro; ad esempio in Belgio dove, nel novembre del 1940, il Primo Presidente della Corte di Cassazione e il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Bruxelles scrivono una toccante lettera in segno di protesta e in difesa dei colleghi ebrei al Generale Von Falkenhausen, comandante in capo dell’amministrazione tedesca.

Gli anni passati sotto il regime di Vichy rappresentano ancora oggi un’onta per la Francia, un passato semi-insabbiato, un mezzo tabù con cui non si sono fatti del tutto i conti. Per quanto conosciuti, vale la pena ricordare i numeri: 240.000 deportati, 30.000 persone fucilate per ordine del Maresciallo Pétain, 110.000 deportati politici e si stima 76.000 ebrei deportati ed uccisi. Un episodio per tutti, la tristemente celebre retata di Parigi del 16 luglio del 1942 che si conclude con la deportazione ad Auschwitz di 13.152 ebrei rinchiusi al Velodrome d’Hiver, assurto a simbolo ignobile della connivenza tra alcuni francesi e le forze di occupazione naziste. Tale operazione sarà condotta da cittadini francesi contro i propri stessi compatrioti. Uomini, donne e bambini verranno arrestati non dalle SS, ma da poliziotti francesi coordinati da Jean Leguay, il delegato a Parigi del famigerato René Bousquet, capo della Polizia di Vichy (Bousquet sopravviverà tranquillo e beato ai propri crimini fino al giorno in cui, 82enne, verrà freddato da cinque colpi di pistola sulla porta di casa, nel 1993).

Ma torniamo a Falco. L’orrore è dappertutto. In un clima come questo Robert non cede alla disperazione, né al desiderio di vendetta. Non ha paura di morire, semplicemente la morte è un pensiero che lo accompagna costantemente e con cui ha già fatto i conti. Riesce a scappare, a rifugiarsi nel sud della Francia, a Saint Paul de Vence, oltrepassando in incognito la linea du Midi “come un malfattore”, dirà. Ad un costernato Presidente della Corte di Norimberga racconterà che tiene sempre pronta una piccola valigia, “nel caso la Gestapo si interessasse a me”. Diversi colleghi andranno a trovarlo nel Midi solo per stringergli la mano, ma spesso e volentieri saranno quelli meno noti, non i grandi nomi, les gros bonnets, con i quali ha condiviso gli anni ruggenti presso il Foro di Parigi.

Nel 1944, con l’avvento del governo provvisorio, Falco chiede finalmente di essere reintegrato presso la Corte di Cassazione francese. La richiesta viene accolta dopo un mese. Un atto riparatore dopo le tante ingiustizie e infamie subite. Ha ormai 63 anni, è vivo, sogna la pensione a corollario di una carriera brillante, ha un’indole mite e rifugge da impegni gravosi e grattacapi. Ma non ha fatto i conti con la Storia. Con la definitiva sconfitta del Terzo Reich, si sta ponendo il problema di processare i gerarchi nazisti, considerati criminali di guerra catturati dagli Alleati. Molti si sono suicidati, ma personaggi come Hermann Goering, Joachim von Ribbentrop, Alfred Rosenberg, Julius Streicher, Hjalmar Schacht, Rudolf Hess e altri militari d’alto rango sono stati catturati dagli Americani e siederanno sul banco degli imputati.

Falco viene così a conoscenza che tra i consiglieri della Corte di Cassazione si cercano persone con buona padronanza della lingua inglese disposti a partecipare alla creazione di un Tribunale di guerra internazionale. La partita giudiziaria è incredibile: giudicare i responsabili tra quanti hanno messo a ferro e a fuoco l’Europa. Falco è incerto, esita, non è più giovane, non parla inglese da quarant’anni, ma dopo un concitato consulto in famiglia, decide infine di candidarsi. Con sua grande sorpresa scoprirà di essere l’unico candidato in lizza! Nessuno se la sente di affrontare qualcosa di così enorme, mai avvenuto prima d’ora, che si prospetta come un compito immane. Ottenuta la nomina, vola a Londra per preparare il processo. È solo. Non si è mai occupato di crimini di guerra. L’unica persona su cui può appoggiarsi è un giovane professore, André Gros, rappresentante francese presso le Nazioni Unite nella Commissione per i Crimini di Guerra, istituita nel 1943. Lo stesso ambasciatore francese a Londra gli è ostile e lo boicotta. Così, oltre ad affinare le proprie doti diplomatiche e le nozioni di diritto penale internazionale, Robert comprende amaramente di essere abbandonato a se stesso. Nessun mezzo a disposizione, nessun servizio di interpretariato, nessun assistente, nessuna equipe di magistrati solidali al suo fianco. Un vuoto imbarazzante.

L’8 agosto del 1945, Mister Falco firma l’Accordo di Londra per conto della Francia, assumendosi in toto la responsabilità di aver gettato le basi per la costituzione della storica Carta del Tribunale Militare Internazionale. Un modello senza precedenti, un nuovo canone, un paradigma giuridico. Saranno questi stessi principi ad essere adottati a Gerusalemme durante il processo ad Adolf Eichmann, a Lione per il processo a Klaus Barbie e a Bordeaux per quello a Maurice Papon. Falco non lo sa ancora ma la sua avventura umana e professionale è solo agli albori. Il destino ha deciso di non lasciarlo in pace. Falco riporta nel suo memoir un acceso dibattito: gli Americani e i Russi discutono animatamente sul luogo dove debba aver luogo il processo. Gli uni propendono per Norimberga, culla della celebrazione dell’ideologia nazista, gli altri per Berlino, occupata di fatto dall’Armata Rossa. La scelta ricadrà su Norimberga e Falco salirà su un aereo messo a disposizione dal Giudice Robert H. Jackson (plenipotenziario per tutto l’esercito di occupazione americano di stanza in Europa), per sorvolare le città e i villaggi della Renania completamente rasi al suolo. Giunto a Norimberga, arriva davanti a quella che sarà la sede del Tribunale, il vecchio Palazzo di Giustizia scampato ai bombardamenti, preferito al Teatro dell’Opera per via delle carceri annesse. “Carpentieri, tappezzieri ed elettricisti si avvicendavano nella sala delle udienze. Logge intere vennero sistemate per permettere ai fotografi ed ai cineasti di installarsi dietro grandi vetri e seguire i dibattimenti senza turbare la dignità delle udienze. La sala, di uno stile sobrio, sembrava più un cinema che una corte di giustizia… Al fondo della sala uno schermo era situato proprio di fronte al box dei testimoni”, ricorda Falco nel suo primo impatto con il Tribunale.

Tutto il mondo ha gli occhi puntati su di loro. Mentre a Norimberga si avvia il processo, la vita scorre. Tuttavia, nell’alacre entusiasmo dei vincitori c’è qualcosa di impudico, che stride, annota Falco. Una scena in particolare colpisce la sensibilità di Robert. È la grande porta che si apre sul salone da ballo del Grand’Hotel di Norimberga, sede del comando americano, con la musica che si espande briosa nelle sale, le coppie che ballano, i militari che si rilassano, il vino che scorre a fiumi. Il tutto in mezzo alle macerie e alla popolazione ridotta alla fame. Durante le serate che inframmezzano le udienze, le varie delegazioni vengono accolte da ricevimenti sfarzosi, spesso al Grand Hotel o nelle sedi degli altri Alleati. Le cene sono veri banchetti, inimmaginabili, annota Falco: champagne, whisky e portate che Robert fatica a terminare, abituato com’è da anni al razionamento del cibo. Dopo cena, un direttore d’orchestra in frac dirige un’orchestra tedesca e tutti ballano un fox-trot frenetico al ritmo del jazz. Tutto è assurdo, surreale. Turbato e infastidito da tanta gaieté, Falco scrive: “Un’occupazione così allegramente rumorosa in mezzo ad un paese in rovina, alla vigilia di un processo epocale, è inopportuna, direi disturbante”. Una delle pagine più toccanti delle sue memorie riguarda la visita al grande stadio di Norimberga. L’erba ormai ricopre gli spalti, ma i due enormi bracieri in bronzo spenti sono ancora lì. La famigerata aquila che troneggiava nel centro è sparita, rubata come bottino di guerra dagli americani. A bordo di una macchina sgangherata messa a disposizione dal governo francese nei giorni che precedono il processo, Falco fa una scappata a Bayreuth, uno dei luoghi simbolo della sua giovinezza da melomane. Il teatro wagneriano, tempio musicale del Terzo Reich, si erge nella sua livida bruttezza: “era davvero orrendo”, scrive. Della sinistra e spettrale Villa Wahnfried – dove Hitler era di casa, chiamato “zio Wolf” dai nipoti del celebre compositore -, non resta in piedi che l’ala più recente e mentre Falco si aggira tra le stanze, un viavai di piatti, cuochi e camerieri si susseguono affaccendati; i soldati affamati si accalcano, la villa di Richard Wagner è diventata la mensa dell’esercito americano! “Di questo passato trionfale non sopravvive che la vedova di Siegfried Wagner (il figlio del compositore, ndr) che, mi vien detto, abita la casa del custode”, annota Falco con sarcasmo. Tale signora, Winifred Wagner, di origine inglese, rimarrà una fervente nazista sino all’ultimo.

I ricordi del processo

Ma veniamo ai ricordi del Processo. Il giudice titolare designato per la Francia è Henri Donnedieu de Vabres, mentre Robert Falco è nominato giudice supplente. Donnedieu è un giudice di lungo corso, ha preso parte ad alcuni incontri organizzati negli anni Trenta dall’Accademia Giuridica Tedesca. Un’istituzione questa, presieduta da Hans Frank, ora imputato chiave a Norimberga e legato da duratura amicizia proprio al giudice Henri Donniedieu. Attenzione: stiamo parlando di quello stesso Hans Frank, governatore della Polonia, complice della deportazione e morte di milioni di ebrei e polacchi, che prese parte già nel 1923 al fallito tentativo di putsch di Hitler. Donnedieu, ricordiamolo, ha attraversato il regime di Vichy senza alcun imbarazzo, nemmeno verso lo Statut des Juifs promulgato in quegli anni. Però è protestante (appartiene alla minoranza ugonotta di Francia) e come accademico non ha dovuto giurare fedeltà al Maresciallo Pétain. Pur di risparmiare la pena di morte a Alfred Rosenberg, Wilhelm Frick, Arthur Seyss-Inquart e Alfred Jodl, Donnedieu eserciterà il suo diritto di voto contro l’intera maggioranza dei giudici. Uno su otto. Le sue frequentazioni professionali però non passano inosservate, al punto che la rivista Le Populaire titolerà un articolo dell’epoca “Un Giudice Nazista a Norimberga”.

Falco si trova dunque stretto in una morsa micidiale. Essere giudice non significa forse garantire equità di giudizio, imparzialità? Come fare se, come ebreo, si è parte in causa in un genocidio senza precedenti? Come conservare la propria neutralità, si chiede Falco, come poter perdonare? Simon Wiesenthal diceva, “ciascuno può perdonare il male che è stato compiuto contro di lui, non può perdonare il male compiuto verso altri.” E anche il giurista Al Lehman Goodhart, all’epoca docente ad Oxford, sosteneva che in genere i prigionieri avevano il diritto di chiedere che i loro giudici fossero EQUI, ma NON che fossero NEUTRALI, poiché semplicemente la neutralità non esiste, non è umana. Nelle memorie di Falco, pubblicate dalla figlia Denise per la prima volta nel 2012 (e oggi rieditate), dopo vent’anni di totale indifferenza da parte degli storici francesi, Falco non entrerà mai in polemica con il giudice Henri Donnedieu, ma annota con minuzia certosina le sue ignobili prese di posizione. Narra di come cerchi di salvare Rosenberg dalla pena di morte. Quello stesso Alfred Rosenberg ideologo della politica antisemita e autore di libri quali L’Immoralità del Talmud, il gerarca che creò l’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg per organizzare il saccheggio di mobili antichi e opere d’arte in tutta Europa e in particolar modo in Francia, da requisire alle famiglie ebraiche.

A conti fatti, il memoir di Falco, presenta oggi una rara “originalità di testimonianza” nonché “un’esperienza giuridica del tutto inedita”, spiega lo storico del CNRS Guillaume Mouralis nell’Introduzione: è la prima volta nella storia che si discute del concetto di “crimini contro l’umanità”, della nozione di complotto e di genocidio. Anche la storica e docente Annette Wieviorka sottolinea (nella Prefazione), non solo il carattere paradossale del Processo di Norimberga, il disinteresse e l’indifferenza delle autorità francesi e degli storici d’Oltralpe nei confronti del processo ma il fatto che Falco sia stato il solo ad aver vissuto la totalità del processo in tutte le sue fasi, dai preliminari a Londra fino alla sua conclusione finale. Falco chiude le sue memorie con due parole: serenità e imparzialità. Due sostantivi, scrive, che caratterizzarono l’andamento formale del processo. “Al di là del nostro giudizio e delle opinioni passeggere, quale sarà il giudizio della Storia? -, si chiede-. Questo processo verrà ricordato davvero come un grande passo avanti nel Diritto penale internazionale? Oppure, come altri mormorano, verrà considerato come un semplice atto di vendetta dei vincitori sui vinti?”. Data la barbarie dei metodi nazisti e le loro aggressioni militari, “gli Alleati avevano tutto il diritto di considerarsi come i poliziotti del genere umano”. “Senza dubbio la pubblica accusa era in mano ai paesi vittoriosi e potremmo un giorno rimpiangere che non fosse composta da elementi neutrali”. Ma “dove potevamo trovare persone neutrali nell’abisso vertiginoso creato da una tale guerra?”.

 

Le responsabilità di Vichy: l’omertà francese

Nessuno ha voluto Ascoltare Denise Falco

Ancora oggi molte decine di migliaia di documenti riguardanti il periodo di Vichy e del collaborazionismo sono secretati nonostante il Presidente François Hollande abbia disposto nel 2015 la consultabilità pubblica per più di 200.000 documenti. Denise Pouillon Falco, figlia di Robert Falco, chiese di poter parlare della pubblicazione delle memorie di suo padre con l’allora Ministro della Cultura di Francia (2004-2007), nipote di Henri Donnedieu de Vabres. Venne ricevuta al 7 di Rue de Valois, ma da un anonimo segretario. Il Ministro non si presentò né si fece vedere. Inutile dirlo, nessuno al Ministero diede un seguito alle proposte o alla richiesta di ascolto della famiglia Falco circa la memoria di Robert. Il Giudice si occupò anche del processo relativo al “Massacro dei Bambini di Izieu”, quarantaquattro bambini ebrei con i loro insegnanti ospitati in una colonia nel dipartimento dell’Ain (Alvernia-Rodano-Alpi) deportati prima di riuscire a passare in Svizzera. Il 6 aprile del 1944 la Gestapo di Lione, comandata da Klaus Barbie effettuò una retata. Quarantadue di loro morirono ad Auschwitz e il fondatore della colonia venne fucilato dai Tedeschi in Estonia. I documenti donati da Falco sono conservati presso il Museo d’Izieu.

Tutti i numeri del “processo del secolo”

Il processo di Norimberga iniziato il 20 novembre 1945Il cosiddetto “Processo di Norimberga” fu solo il primo di una serie di procedimenti penali contro i nazisti, che furono in tutto 12 e si svolsero nel Tribunale internazionale militare di Norimberga, città simbolo del nazismo. Videro imputate in totale 185 persone, tra medici, giuristi, SS, capi di industrie e funzionari di Stato. Il primo processo si svolse dal 20 novembre 1945 al 1º ottobre 1946 (il 16 ottobre 1946 furono impiccati i condannati a morte); quindi si concluse 75 anni fa. Fu quello che destò più emozione perché sul banco degli imputati sedevano 24 tra i massimi esponenti del Terzo Reich che dovevano rispondere di 4 capi d’accusa: cospirazione per commettere crimini contro la pace; aver pianificato, iniziato e intrapreso guerre di aggressione; aver commesso crimini di guerra; aver commesso crimini contro l’umanità (ma diversi imputati furono accusati solo di alcuni di questi reati). Un anno di dibattimento; 400 udienze; 300 mila dichiarazioni; 1600 pagine di processi verbali; 3000 tonnellate di documenti; 100 testimoni; più di 100 tra traduttori e segretarie. I giudici erano 8: Geoffrey Lawrence (Regno Unito, presidente), Norman Birkett (Regno Unito, sostituto), Francis Beverley Biddle (statunitense, giudice principale), John Parker (statunitense, sostituto), Henri Donnedieu de Vabres (francese, giudice principale), Robert Falco (francese, sostituto), Iona Timofeevic Nikitcenko (sovietico, giudice principale), Aleksandr Fëdorovic Volckov (sovietico, sostituto).

 

Il Processo di Norimberga e la storiografia
Spartiacque morale o “giustizia dei vincitori”?

Il banco degli imputati

«Con il nome di Processo di Norimberga – spiega Liliana Picciotto, storica della Fondazione CDEC di Milano – è erroneamente passato alla storia non solo il primo processo ai 24 grandi criminali nazisti, condotto dal primo Tribunale militare internazionale, ma i tanti processi successivi in cui gli imputati sono stati raggruppati per categorie: i medici dei lager, le SS… Lo scopo del Processo e le sue caratteristiche sono stati innovativi e per questo giuridicamente complessi». Si è trattato infatti di sottoporre al giudizio di un Tribunale, “militare” e “internazionale” allo stesso tempo, un gruppo di individui che rappresentavano i più alti gradi politici e militari di uno Stato sconfitto in guerra. Una novità assoluta. «La grande importanza del Processo è stata quella di stabilire dei principi cardine: la responsabilità individuale per i crimini commessi; nessuno può nascondersi dietro all’argomento difensivo di avere obbedito a ‘ordini provenienti da superiori’ né del Diritto assoluto di uno Stato sovrano». Nel corso del processo si è stabilita anche un’altra “prima volta”: quella di essere giudicati per crimini che all’epoca in cui erano stati commessi non lo erano affatto, anzi. Erano l’esecuzione di leggi e direttive politiche e militari. Ma la nozione di “crimini contro l’Umanità” ha stabilito una deroga al principio giuridico del nulla poena sine lege che vieta la retroattività del giudizio. «Una questione che è stata poi sollevata più volte dai negazionisti» – commenta Picciotto. Poi, rileva la storica, «Nel Processo la questione della Shoah fu sempre sottostimata. Per vederla riconosciuta bisogna aspettare il Processo Eichmann del 1961, in Israele. Ma il giudice non è uno storico, non ha né gli strumenti né i tempi della ricerca storica». Il valore morale è emerso a posteriori, per quello che il Processo di Norimberga ha trasmesso ai principi delle Corti internazionali: il nazismo e il razzismo non sono tollerabili in nessun paese del mondo.