Freud e l’ebraismo, un tabù da superare

L’ambiente famigliare e il rapporto col padre, Kallamon Jacob Freud. La Vienna fin de siècle e il portato di una educazione che pesca negli shtetl della Galizia asburgica. Interpretare la Torà non è forse come intrepretare i meandri della nostra psiche, come scrutare l’anima attraverso la dialettica tra memoria e oblio, tra parola e narrazione? Quali furono i tratti salienti dell’ebraicità di Freud? Quali le linee comuni tra il metodo e le strutture essenziali della psicoanalisi e quelle del pensiero e dell’ermeneutica ebraica? A rispondere a queste e altre domande arriva oggi un appassionante saggio, Sigmund Shlomo Freud – Le radici ebraiche della Psicoanalisi (Belforte editore), scritto dalla studiosa e docente Franca Feliziani Kannheiser. Pubblichiamo qui di seguito parte dell’introduzione di Silvia Vegetti Finzi.

di Silvia Vegetti Finzi

È un legame profondo quello che unisce la “scienza dell’Io” all’identità ebraica del suo fondatore. Un saggio indaga a fondo la feconda e intima ambivalenza tra le origini di Freud e il mondo positivista del suo tempo. Restituendo al suo pensiero quell’ebraicità troppo spesso minimizzata e ritenuta irrilevante

Nata all’inizio del secolo scorso, la Psicoanalisi ha conosciuto fasi di sviluppo e di remissione e ultimamente ne registriamo l’eclisse. Negli ultimi trent’anni, nelle università, il suo ruolo è stato progressivamente emarginato a favore di altre discipline come il comportamentismo, il cognitivismo, la neurofisiologia, la statistica, con una grave perdita in termini di conoscenza e di saggezza. Tanto più che gran parte degli studenti di Psicologia si propone di svolgere un’attività psicoterapeutica. Con quale preparazione lo farà, ignorando una parte così rilevante della storia della cultura, misconoscendo il comandamento che ci proviene dai fondamenti stessi della nostra civiltà: “Conosci te stesso”?
La psicoanalisi è l’esito di esperienze storiche secolari, come Freud riconosce nella premessa all’Interpretazione dei sogni, ma è indubbio che l’Ebraismo concorra in modo particolare alla sua realizzazione. Sin dalle origini, l’eredità ebraica influisce sulla costruzione teorica e sul metodo clinico, così come plasma le modalità di istituzionalizzazione e divulgazione del nuovo sapere. Ma se ci si ferma a questa constatazione senza analizzare “come” quella dimensione storica e culturale diventi operativa, attraverso quali processi di assimilazione e rielaborazione incida sull’impresa freudiana, rimane una dichiarazione di principio che si può modulare secondo le convenienze. Ed è proprio su questa lacuna che si inserisce il contributo che Franca Feliziani apporta, riconoscendo nel medium linguistico (ebraico, tedesco e yiddish) il vettore che connette Ebraismo e psicoanalisi.

Ora però non si tratta di promuovere o difendere una disseminazione già avvenuta (la psicoanalisi compenetra la nostra visione del mondo), ma di contrastare la sterilizzazione di un sapere che rischia di ridursi a supporto di terapie farmacologiche e comportamentiste, ritenute più rapide ed efficaci. Nulla di più lontano dalla conoscenza dell’inconscio, dalla cura dell’anima e dai progetti di sovversione e liberazione perseguiti da Freud e dai suoi tumultuosi seguaci. Già Freud aveva avvertito che l’unico motivo per ricorrere alla terapia psicoanalitica, particolarmente lunga e costosa, è il desiderio di superare la stupidità e di perseguire la verità. Ed è appunto in questa direzione che procede, animata dal transfert, l’esperienza dell’analizzante che si riconosce, al termine di un lento e faticoso lavoro, soggetto e oggetto della sua vita, autore e attore della sua storia. Un percorso interminabile che mal s’adatta, nel tempo dell’efficienza e della tecnica, a una società instabile e contraddittoria che ha perduto, nella stagnazione del presente, quella che Bion chiama “memoria del futuro”.
In questi frangenti l’unico modo per procedere in avanti è tornare indietro, conoscere da dove si proviene per sapere in quale direzione proseguire. In questo senso è auspicabile che la psicoanalisi rimanga un cantiere aperto, un work in progress, ove la ricognizione del passato promuova la costruzione del futuro, ove elusioni, conflitti e ambivalenze alimentino progetti e ricerche.

In Sigmund Shlomo Freud (si noti il recupero del nome ebraico) Franca Feliziani Kannheiser, specializzata in Psicologia nell’Ateneo pavese, riprende quella tradizione e la rinnova, arricchendo la ricostruzione dei fatti e l’interpretazione dei testi con numerosi strumenti interpretativi.
Accostando Ebraismo e psicoanalisi sotto il segno della “parola”, l’autrice ricorre ad analisi linguistiche e filologiche di testi quali l’Antico Testamento, la Torah, la mistica ebraica (Qabbalah) e le narrazioni chassidiche. La sua disanima si amplia sino a cogliere l’influenza ebraica nella storia della filosofia, della letteratura, della musica e dell’arte in generale.
Particolarmente interessante è l’analisi che Feliziani compie del motto di spirito (Witz), che caratterizza l’economia intra e interpsichica dell’ebreo, dal povero villaggio dipinto da Chagall sino ai film di Woody Allen. Questo stratagemma linguistico rivela lo sforzo di una minoranza storica, sottomessa e vessata, di resistere all’arbitrio di una società autoritaria e violenta, reagendo ai soprusi con un’aggressività moderata, con un lampo di ironia che scarica le tensioni senza recidere i legami sociali.
Tra l’altro questo saggio mette in luce come la personalità e l’opera di Freud siano non soltanto “collocate” in un preciso momento storico, ma innervate da mutamenti tumultuosi, quali la dissoluzione dell’Impero asburgico, l’urbanizzazione, l’industrializzazione, il conflitto tra l’universalità dei diritti proclamati dalla Rivoluzione francese e la difesa delle identità nazionali, il disagio femminile e il progressivo antisemitismo.

Dalla prima metà del XIX secolo alla seconda metà del XX, l’ebreo dell’Europa orientale si lascia alle spalle condizioni di emarginazione e persecuzione sino a raggiungere, attraverso patti di tolleranza e diritti di emancipazione, una sostanziale integrazione.
Un traguardo a lungo agognato che il nazismo annullerà brutalmente pianificando lo sterminio di un popolo che si considera, al tempo stesso, cittadino del mondo e membro di una minoranza capace di conferire ai suoi appartenenti senso e significato. L’ebreo della diaspora è un soggetto mobile e cosmopolita che il nazismo inchioderà, utilizzando il concetto pseudoscientifico di “razza”, a un’identità invisibile e indimostrabile.

Come Franca Feliziani efficacemente ricostruisce, Freud vive in quell’alveo e ne viene profondamente permeato. La sua posizione di ebreo senza fede, che tuttavia non nega di sentirsi appartenente storicamente e socialmente a una comunità religiosa, suscita non poche difficoltà nei compilatori della sua biografia. Un contrasto tra ammissione e negazione che l’autrice colloca, accogliendo il suggerimento di Bruno Bettelheim, sotto l’insegna di una fondamentale categoria psicoanalitica, quella di “ambivalenza”. Una formula che consente di considerare non patologiche, ma vitali le antinomie che contraddistinguono l’identità e l’opera di Freud: Illuminismo e Romanticismo; apprezzamento e disprezzo per Vienna; ateismo e religione; cultura ebraica e tedesca; tradizione biblica e classicità greco-romana; convinzioni politiche conservatrici e innovatrici; femminismo e pregiudizi patriarcali, storia e scienza, amore e odio nel conflitto edipico.

Un campo di tensioni che Freud non cercherà mai di annullare, traendone anzi una spinta a procedere: formulare ipotesi, fantasticare, argomentare, confrontarsi con i saperi limitrofi e gli interrogativi che il suo tempo gli pone.
Tra i tanti meriti della sua impresa vorrei sottolineare la capacità di proporre una storia mai astratta e fine a se stessa, mai limitata al recupero di reperti museali, sempre animata dalle inquietudini e dai quesiti posti dall’attualità, da una stagione della storia che, come quella freudiana, si confronta con la disgregazione del passato e il collasso del futuro, con la crisi che Freud aveva preannunciato nel Disagio della civiltà.

Nella vicenda autobiografica di Freud possiamo scorgere in filigrana le figure a noi contemporanee dell’emarginato, del perseguitato, del profugo, dell’esule e riconoscere il dilagare di pregiudizi razziali che, negando l’identità dell’altro, disumanizzano l’umanità.
L’impegno morale rende la narrazione dell’autrice appassionata e coinvolgente, mentre lo stile preciso, limpido ed elegante della sua scrittura suscita un piacere del testo quanto mai raro in saggi storici così complessi.
Penso che, oltre agli addetti ai lavori e ai lettori colti, questo libro possa costituire un “romanzo di formazione” per gli studenti universitari. Nelle sue pagine, infatti, prendono forma i dilemmi esistenziali che contraddistinguono la giovinezza: la formazione dell’identità, il complesso di Edipo, la conoscenza di sé e la realizzazione delle proprie aspirazioni, la sessualità e l’amore, l’accettazione del passato e la costruzione del futuro. Sentimenti ed emozioni quali l’amore e l’odio, l’amicizia e la rivalità, la solitudine e l’appartenenza, l’incomprensione e l’apprezzamento, la gioia e il dolore trovano, nella capacità rievocativa dell’autrice, parole per essere pensati, detti e condivisi. Brani tratti dalla Bibbia e dalla mistica ebraica ci presentano modi molto lontani dai nostri di vivere, di pensare e di sognare, alternative che dischiudono nuovi orizzonti contrastando la tirannia del pensiero unico e la paura della libertà che ci assediano.

Il lavoro di studio, di ricerca e di elaborazione sotteso a quest’opera breve ma particolarmente ricca e intensa induce il lettore a provare un sentimento di gratitudine per Franca Feliziani, per la sua capacità di rianimare un lascito culturale che non possiamo dimenticare in quanto fa di noi quello che siamo. Il mio augurio è che il libro possa riscuotere il successo che merita, non solo per il suo valore, ma anche in quanto, pubblicato dalla Salomone Belforte & C., prosegue l’opera di promozione e divulgazione svolta per anni dall’omologa libreria di Livorno, una istituzione che rappresenta una pietra miliare nella storia della psicoanalisi in Italia.