di Dalia Gubbay
“Mamy, ma perché ci sono sempre quei signori con il fucile davanti alla nostra scuola?”
Sono trent’anni che accompagno i miei figli a scuola, ogni mattina. Sono in sei, dunque i conti son presto fatti.
Lo faccio fino alla maturità: un rito domestico che resiste al tempo. Parliamo, ascoltiamo musica — o meglio, io parlo e loro mugugnano, a seconda dell’umore o della giornata che li aspetta. La musica a volte si tollera, ma anche questo fa parte del gioco.
Questo momento non l’ho mai considerato negoziabile. Mi riempie, mi ricorda chi sono e cosa non ho potuto avere.
La mia “squadra” familiare attraversa due generazioni: un gruppo di Millennials e uno della Generazione Z. Inevitabile che abitudini, strumenti e linguaggi si siano trasformati negli anni. I tempi cambiano e con essi la necessità di adattarsi: come madre, ho imparato a conoscere e a interpretare mode e codici sempre nuovi, senza però rinunciare al mio ruolo, senza arrendermi.
Una cosa però non è mai cambiata.
Ed è quella domanda, sempre lei, precisa, uguale, implacabile.
I signori con i fucili.
Non ricordo esattamente quando ciascuno dei miei figli l’abbia posta, ma l’effetto era sempre lo stesso: una risposta che restava bloccata in gola.
Cosa si può dire a un bambino?
Che gli angeli armati vigilano davanti a tutte le scuole?
Sarebbe ammettere che esiste qualcuno disposto a far del male ai bambini e questa è una cosa che nessun genitore vuole dire a un figlio, o almeno è un bagno di realtà che si rimanda il più a lungo possibile.
E poi. Questa non sarebbe stata comunque la verità.
Davanti alle altre scuole non ci sono i signori armati.
La verità, più semplice e più dura, più cruda e più ingiusta, è che la minaccia riguarda solo i bambini ebrei, i ragazzi e le loro famiglie.
E questa condizione, nel tempo, è diventata normale.
Normale è avvisare la sicurezza prima di ogni gita, evento, viaggio o cerimonia.
Normale evitare di fermarsi a parlare davanti alla sinagoga per un semplice “Shabbat Shalom”.
Normale togliere la kippà al mio nipotino prima di uscire.
Normale redarguire i ragazzi se si soffermano in zone sensibili.
«State attenti» sempre, ovunque.
Se non è necessario non dite di essere ebrei.
Una vulnerabilità antica e sempre attuale.
Vivere sotto protezione senza che nessuno, fuori da noi, si chieda veramente il perché.
Quando lo ricordo alle mie amiche non ebree, in perfetta buona fede mi rispondono che non ci hanno mai pensato su.
E perché dovrebbero?
A chi ci accusa delle peggiori nefandezze andrebbe chiesto: perché le forze dell’ordine presidiano solo noi?
Perché nessun’altra scuola o luogo di culto è esposto allo stesso rischio?
La spiegazione è sempre la stessa: noi ci difendiamo.
Non attacchiamo, non minacciamo.
Ci limitiamo — da generazioni — a proteggerci.
Così le moschee non hanno bisogno di protezione, i fedeli musulmani possono riunirsi numerosi e celebrare serenamente il Ramadan in Stazione Centrale, mentre nello stesso luogo cittadini ebrei vengono aggrediti.
Nemmeno la vicinanza con il Memoriale della Shoah, con i suoi vagoni vuoti e muti, con la sua testimonianza storica, basta a frenare l’odio di chi non vuole ascoltare.
E i bambini dunque?
Loro sono lì, con la loro luce: si abituano presto, spesso salutano i militari con il sorriso naturale dell’infanzia, come se quell’immagine — maestre, bidelle e uomini armati — fosse parte dell’ordinaria scenografia scolastica.
Da anni oramai vivo la scuola non solo come madre, la respiro, la sento, osservo le famiglie all’entrata e all’uscita e non passa giorno che io non mi chieda fino a quando dovremo rispondere a quella domanda.
Qualche settimana fa, due gemelli a me molto cari, entusiasti, mi hanno detto:
«Hai visto? La guerra è finita! Così possiamo tornare in Israele!».
Non mi hanno chiesto se ora i soldati davanti alla scuola andranno via.
Se lo avessero fatto, avrei dovuto dire loro la cosa più difficile: il mondo, per questo, non è ancora pronto.
(Libero,26/11/2025)



