Ebraismo e fondamentalismo

Opinioni

di Rav Giuseppe Laras

Prima di interrogarci sull’esistenza o meno, in seno all’ebraismo, di un fenomeno fondamentalista, vediamone la definizione che ne dà il dizionario [1]: “Movimento religioso protestante, ispirato a principi di rigida e intransigente ortodossia…; genericamente, linea conservatrice intransigente in materia religiosa o anche politica”.

In certe circostanze, il termine è assunto come sinonimo di integralismo, così descritto sempre nel succitato dizionario: “Indirizzo ideologico che, partendo dal presupposto della assoluta validità dei propri principi, mira a stabilire la propria egemonia in campo religioso, politico e culturale”.

In termini più generali, il fondamentalismo indica solitamente l’ala più conservatrice e integralista di una religione o di una qualunque ideologia.

Per quanto riguarda l’ambito dell’ebraismo, è da notare che “voci” come “fondamentalismo”, “integralismo”, “estremismo” e simili non compaiono, se non eccezionalmente, e comunque solo recentemente, in enciclopedie, dizionari e altri testi generali di consultazione. Ciò può fare verosimilmente pensare che, alla radice della cultura e del pensiero dell’ebraismo, sia sostanzialmente assente qualsiasi marcata tendenza verso integralismi di sorta.

Un brano della Torah (Num. XXV, 1-15) molto significativo nella sua cruda drammaticità può esserne la riprova. Esso concerne l’uccisione, per mano di Pinechàs, nipote del Sommo Sacerdote Aronne, di Zimrì, capo della tribù di Simeone, e di Qozbì, principessa midianita. Zimrì, contravvenendo a un preciso ordine divino, si era unito, al cospetto di tutta la comunità, a quella donna idolatra in un contesto di prostituzione rituale, suscitando lo sdegno irrefrenabile di Pinechàs, che li uccise entrambi, trafiggendoli con una lancia.

Questo episodio evidenzia un gesto di efferata violenza, scaturente da zelo religioso esasperato (kannaùth), messo in atto -si badi- non da un fedele qualsiasi, ma da un personaggio di primo piano, appartenente all’ambiente dominante.

Un simile gesto, contrariamente a quanto, forse, qualcuno potrebbe essere indotto a pensare, non è mai stato -nel dibattito etico che si riflette nella letteratura midrashico-talmudica– additato o consigliato come esempio per coloro che si trovassero ad affrontare situazioni analoghe. Al contrario, non si è mai mancato di mettere in guardia, esplicitamente ed energicamente, contro le eventuali tentazioni da parte di chicchessia di emulare il gesto estremo di Pinechàs. In altre parole, il gesto sanguinoso di Pinechàs è giudicato come un’esperienza unica, da non ripetersi, vissuta da un personaggio particolare, in un contesto di esasperata tensione emotiva.

Tutto ciò, in termini generali, premesso e sottolineato, al fine di entrare nello specifico della situazione contingente e reale dello Stato di Israele e delle sue componenti umane ed istituzionali, diremo subito che il Sionismo, come dottrina politica concepita da Teodoro Hertzl per far risorgere nella terra dei Padri il Terzo Stato Ebraico, ha offerto a due distinte componenti del popolo ebraico, entrambe connotate da intensa e radicale carica ideologica, che per comodità di sintesi espositiva indicheremo, rispettivamente, come Ortodossia Messianica e Nazionalismo Religioso, di misurarsi con esso, proponendo due soluzioni radicalmente diverse e contrapposte tra loro.

Mentre, da un lato, la prima componente si caratterizza dal rifiuto di prendere in considerazione, nei confronti della realtà della terra di Israele, le categorie della politica e del nazionalismo secolarizzato, la seconda tende, invece, sempre più a vedere nel Sionismo la manifestazione della volontà provvidenziale di Dio.

Le componenti ortodosse del primo gruppo appaiono orientate a combattere il Sionismo e lo Stato di Israele, ben prima del suo sorgere. La dottrina sionistica è infatti da essi avvertita come una grave minaccia contro la fede religiosa, vista nella loro ottica, e la conseguente fondazione dello Stato Ebraico come una sorta di forzatura blasfema.

I gruppi che si riconoscono a qualche titolo in tale ideologia, e di cui i Neturei Kharta (= i custodi della Città) sono i più noti, ritengono sostanzialmente e concordemente che l’avvento messianico e la conseguente redenzione non possono in alcun modo essere accelerate ad opera degli uomini, che devono invece rimanere in passiva e statica attesa dell’evento annunciato. Per questi, che possiamo definire oltranzisti o fondamentalisti per l’irriducibilità con cui conducono la loro azione ideologica e pragmatica, il Sionismo e la realtà statuale e nazionale di Israele rifletterebbero un tradimento nei confronti della propria fede e del proprio destino.
Tale impostazione -in termini pratici- si traduce nel boicottaggio delle elezioni, nel rifiuto del pagamento delle tasse e, più in generale, nella contestazione della legittimità delle istituzioni.

Molto più importante e significativo dal punto di vista politico e religioso è il secondo gruppo, quello cioè dei Sionisti Nazional-Religiosi.

Per questa componente, che potremmo definire, ma solo per marcarne la determinazione e la forte consapevolezza, “fondamentalista nazional-religiosa”, il Sionismo e la Medinath Israel costituiscono la manifestazione provvidenziale della volontà divina.

Padre ispiratore di questa corrente religiosa fu il rabbino Avraham Isaac Kook (1865 – 1935) che, agli inizi del Novecento, teorizzò la libertà politico-statuale della nazione ebraica come precondizione per la sua libertà spirituale.

Successivamente al 1967 (Guerra dei Sei Giorni), vero spartiacque nella storia dello Stato di Israele e del Medio Oriente, l’ideologia della componente nazional – religiosa, considerata in tutti i suoi risvolti ed anfratti non sempre ben visibili ed interpretabili, si va progressivamente caricando di una connotazione deterministica che induce, almeno alcuni, a riconoscere nelle vittorie dell’esercito israeliano su quelli arabi un segnale divino.

Con l’avvento al potere nel 1977, di Menachem Begin (1913 – 1992) e del suo partito, il Likud, pur trattandosi di una coalizione di partiti non religiosi, il movimento nazional-religioso, sotto la spinta dei giovani militanti del Gush Emunim (il Fronte della Fede) inaugura una politica, peraltro agli inizi più contenuta e prudente, di insediamenti nei territori della Giudea e della Samaria.

Parlando di fondamentalismo e di ciò che è riconducibile ad esso all’interno della società israeliana, non si può non fare una breve riflessione su ciò che ormai da tempo sembra dominare la società israeliana stessa nella sua generalità: un laicismo che tende ormai sempre più a progredire e a radicalizzarsi.

Tale fenomeno, si badi, non va inteso solo come reazione e conseguenza dell’affermarsi e del diffondersi nella società di una ortodossia caratterizzata da una forma mentis ritenuta da taluni, laici e non solo, eccessivamente invasiva e intollerante, nonché della presenza di Yeshivoth di stretta ortodossia che negli ultimi tempi vanno costituendosi sempre in maggior numero, ma anche come frutto di una spinta ideologicamente e acriticamente antireligiosa, difficilmente sfociante in un dialogo costruttivo.

Sembrerebbe essere proprio questa connotazione del mondo ortodosso che, secondo alcuni componenti del mondo laico, ma anche di alcuni esponenti autorevoli della stessa ortodossia, va sempre più affermandosi, a provocare reazioni di insofferenza, disagio e preoccupazione da parte della società laica verso tutto ciò che è o che ha l’aspetto o il sapore di religioso.

Si tenga presente, in particolare, in questo contesto espositivo, di due diverse circostanze:

I. In base ad accordi intervenuti tra Stato e Rabbinato fin dalla costituzione della Medinath Israel, la competenza sulle questioni afferenti il cosiddetto Statuto Personale (matrimoni, divorzi, eredità, conversioni) è affidata ai Tribunali Rabbinici (Batthè-Din) ortodossi e non a quelli dello Stato (Batthè-Mishpat). Vigente questa situazione, è intuibile come, in un’ottica fortemente laicizzata, un’esclusiva regolamentazione rabbinica di comparti delicati come quelli, soprattutto, dei matrimoni e delle conversioni, finisca per alimentare tensioni e contestazioni.

II. La contrapposizione dialettica tra società religiosa e società laica, rilevabile fin dall’inizio all’interno della costituzione dello Stato di Israele, con il passare del tempo si è progressivamente acuita e aggravata, divenendo, a detta anche di alcuni osservatori e analisti neutrali, una frattura che, purtroppo, mostra di andare sempre più approfondendosi e allargandosi.

È di tutta evidenza che, in un contesto ambientale così sovraccarico di tensioni e contraddizioni come quello della società israeliana oggi (non si pensi soltanto alla dialettica fra religiosi e laici, ma al permanente pericolo di guerra e alle difficili condizioni economico-sociali in cui versa buona parte della popolazione), comportamenti o atteggiamenti talora sbilanciati e orientati verso l’estremismo, ancorché quasi sempre non violento, di fatto si possono sempre manifestare ed essere comunque presenti allo stato potenziale.

In tema di fondamentalismo, per quanto concerne l’ebraismo diasporico contemporaneo, esso non presenta né implica, in generale, una qualsivoglia connotazione violenta, né di ispirazione politica né di matrice religiosa.

Può tutt’al più accadere che, in circostanze particolari, alcuni episodi contingenti, legati alla realtà politico-statuale dello Stato di Israele o a manifestazioni di antisemitismo, possano innescare reazioni, a volte anche estreme, all’interno delle varie componenti del mondo ebraico.

Nell’ambito dell’ebraismo ortodosso, per quello che concerne alcune questioni di etica contemporanea, riguardanti sia il mondo ebraico sia l’intera società occidentale e avvertite come delicate e di difficile soluzione, o questioni attinenti, invece, in modo più specifico l’osservanza religiosa, si possono osservare comportamenti o indirizzi di marcata e intollerante intransigenza, da taluni sicuramente assimilabili a una sorta di estremismo religioso.

Si consideri però che, sia per motivi numerici che culturali, la voce più influente del mondo ebraico della Diaspora è oggi quella dell’ebraismo americano che, come è noto, è a maggioranza di ispirazione riformata (si considerino le due principali e differenti correnti, rispettivamente il Liberal progressive Judaism e il Conservative Judaism, noto anche come Movimento Massortì -tradizionale- e più vicino al mondo ortodosso), ben lontano, come tale, dal porsi problemi di stretta intransigenza religiosa.

In particolare, in Diaspora, una voce eminente e illustre del mondo ortodosso è quella della Moderna Ortodossia [2], impegnata a coniugare Tradizione e modernità, sicuramente distante da tentazioni estremistiche, ma anzi proiettata verso un  produttivo dialogo con la contemporaneità.


[1] Giacomo Devoto – Gian Carlo Oli, Dizionario Devoto Oli della Lingua Italiana. Firenze, 2004 – 2005.

[2] Si tratta del movimento di pensiero, interno all’ortodossia, noto appunto come New Orthodoxy o Modern Orthodox Judaism, il cui centro propulsivo di pensiero è la Yeshiva University di New York.

L’articolo è stato pubblicato per i tipi di Jaca Book nel volume “Metamorfosi del Sacro” – Milano, novembre 2009