di Maxim D. Shrayer *
Resto sveglio pensando all’Italia, all’amore e alle illusioni infrante. Persino la notizia del ritorno in Israele degli ostaggi sequestrati da Hamas non riesce a dissipare la mia tristezza.
Mi scorrono davanti agli occhi alcuni dei momenti più felici della mia vita. L’arrivo a Roma, nell’estate del 1987, con i miei genitori – ex refusenik –, e il primo assaggio della libertà. Io, in piedi sul Ponte Vecchio, avvolto da una bellezza tale da farmi esplodere i sensi di gioia. Anni dopo, ormai cittadino americano, i soggiorni a Bellagio sul Lago di Como e a Bogliasco, vicino Genova, dove scrissi alcune delle mie pagine migliori; e poi i viaggi annuali in Italia con mia moglie e le nostre figlie. Ricordo anche il legame speciale con colleghi accademici e letterari italiani – in particolare una sera perfetta a Bari Vecchia, dopo la presentazione della traduzione italiana del mio libro Aspettando America. Eravamo in un ristorante a gestione familiare, all’aperto, e io ero l’unico non italiano e l’unico ebreo del gruppo. Mi sentivo a mio agio tra quei colleghi italiani, convinto di condividere con loro una comprensione profonda degli orrori del fascismo e del comunismo. Condividere: questo credevo di poter fare con i miei amici italiani, anche superando barriere di politica, origine e cultura.
E poi, in queste ore insonni di separazione forzata dall’Italia, mi ritrovo a rivedere nella mente le immagini delle recenti manifestazioni italiane di “solidarietà” con la Palestina e della cosiddetta “Global Sumud Flotilla”. I manifestanti sventolano bandiere palestinesi, bandiere dei sindacati e bandiere rosse con falce e martello. Alcuni striscioni portano la scritta “Ieri partigiani, oggi antisionisti e antifascisti” e dichiarano sostegno alla “resistenza palestinese”. La riscrittura della storia che vi leggo mi appare morbosamente offensiva. Altri cartelli attaccano l’attuale governo italiano. I manifestanti dicono di volere la pace, ma la loro furia rivela sete di distruzione. Chi sarebbero le vittime di un’eventuale esplosione di violenza? I membri della piccola comunità ebraica italiana? Il 5 ottobre 2025, sulla vetrina del forno kasher di via Avicenna a Roma è apparsa la scritta “Ebrei di m***a bruciate tutti”. Guardando le proteste, ho l’impressione netta che, agli occhi delle decine di migliaia di persone che marciano nelle città italiane, i primi ministri Netanyahu e Meloni e il presidente Trump si siano fusi in un unico nemico collettivo chiamato Israele — evocando i copioni delle crociate e dei pogrom, degli spettacoli d’odio nazisti e della propaganda antisemita sovietica.
Non riconosco più la mia Italia. Eppure, col senno di poi, i presagi erano chiari già l’estate scorsa, quando io, mia moglie e mia figlia minore siamo tornati dall’Italia dopo un semestre sabbatico.
Devo tornare indietro e spiegare: ci sono cose che ho scelto di ignorare, e altre che non ho potuto. Nel luglio 2025, il Senato accademico dell’Università di Pisa, dove ero professore ospite, ha raccomandato la sospensione degli accordi con le università israeliane. Nella mozione, il Senato “esprimeva solidarietà a Francesca Albanese” — la stessa Albanese, “Relatrice speciale ONU sui Territori palestinesi occupati” e famigerata ex studentessa dell’università di Pisa, che il 30 settembre 2025 ha dichiarato in un discorso che i terroristi di Hamas “sono riusciti a riportare la Palestina al centro del dibattito, stanno animando una rivoluzione globale”. Dopo le mie obiezioni pubbliche, alcuni colleghi mi hanno rassicurato che ciò non avrebbe influito sui rapporti con singoli colleghi ebrei o israeliani. Ma come poteva non farlo?
Nel frattempo, notavo sempre più segnali di un cambiamento: certi intellettuali italiani si sentivano legittimati a trasformare il proprio antisionismo in attacchi contro tutti gli israeliani e gli ebrei. Nell’agosto 2025, Luca Nivarra, professore di diritto all’Università di Palermo, ha invitato gli italiani a “cancellare gli amici ebrei da Facebook”, scrivendo: “I fatti dimostrano che non esistono israeliani buoni”. Il fervore con cui alcuni attivisti italiani cercavano di bandire Israele si stava traducendo in un assalto contro tutto ciò che è ebraico. Un corso di yiddish in un’università dell’Adriatico è stato annullato perché gli studenti lo hanno boicottato. Nel frattempo, sono aumentati gli episodi di antisemitismo: un uomo con la kippah è stato aggredito da una folla vicino Milano. A fine settembre 2025, un sondaggio nazionale ha rivelato che “circa il 15% degli italiani considera del tutto o abbastanza giustificabili gli attacchi fisici contro gli ebrei” e “il 18% ritiene legittimi i graffiti antisemiti”. Ho saputo anche di ebrei e israeliani che lasciavano l’Italia, tra cui due famiglie di Firenze che conoscevo personalmente.
Poi arrivò ottobre, e con esso Yom Kippur. Il 3 ottobre 2025 si è tenuto in Italia uno sciopero generale “a sostegno dei residenti di Gaza e di una missione umanitaria”. Mentre nel resto d’Europa si moltiplicavano le manifestazioni anti-israeliane, in Italia sono state le più numerose. Quello che accadeva mi colpiva più profondamente che altrove, nel Regno Unito o nei Paesi Bassi, perché seguivo le proteste anche attraverso i post sui social dei miei colleghi e autori italiani.
Un traduttore italiano di autori ebreo-russi ha pubblicato un selfie con un’altra persona elegantemente vestita, in mezzo a manifestanti a Milano, molti con la kefiah e bandiere palestinesi. La didascalia recitava: “In barca e in bici” – riferimento alla flottiglia guidata da Greta Thunberg con 45 partecipanti italiani, il terzo gruppo nazionale dopo Turchia e Spagna. Ho commentato in italiano: “È ciò che penso? Un’altra manifestazione di solidarietà con Hamas? Gli scrittori ebrei di cui hai tradotto e insegnato le opere si rivoltano nella tomba davanti a simili scene”. Mi ha risposto: “Pensa pure quello che vuoi. Non abbiamo più nulla da dirci.” Poi mi ha cancellato dagli amici. Ne è seguita una valanga di commenti ostili: il più significativo diceva “Tra Hamas e il governo israeliano c’è davvero poca differenza.” Ho replicato – non so neanche perché –: “Non hai alcun diritto morale di giudicare gli ebrei o lo Stato ebraico. Quello che hai detto è odioso e antisemita.”
Il punto di rottura, per me, è arrivato il 4 ottobre 2025. Un’amica scandinava in visita a Firenze mi inviò la foto di un manifesto incollato su un muro, a due isolati da Palazzo Pitti. Ero passato da quelle parti molte volte. Lì, nel 1868-69, Dostoevskij aveva scritto L’idiota, il suo romanzo che preferisco. Al centro del manifesto, su sfondo seppia, campeggiava una bandiera israeliana spiegazzata. Sopra, in gotico nero, la scritta “Popolo eletto ad alzata di mano”. Sotto, una fila di braccia tese nel saluto nazista; su una, una fascia rossa con svastica. La fila di mani alzate rende ancora più sinistre le parole sopra la bandiera israeliana, cancellando il gioco di parole tra “popolo eletto”, cioè gli ebrei, e “popolo votato”, cioè, presumibilmente, lo Stato ebraico “eletto” con un saluto nazista. L’effetto era terribile: il gioco di parole tra “Popolo Eletto” e “Popolo Eletto per Alzata di Mano” trasformava Israele nel successore del nazismo. L’autore, un artista fiorentino di nome Stefano Galli, firma le sue opere “Galli Artepiombo Firenze”. Dubito che in Germania qualcuno esporrebbe simili immagini senza scandalo. L’Italia ha leggi contro l’istigazione all’odio razziale, etnico o religioso. Ma questo artista fiorentino non sembra preoccuparsene, né i suoi concittadini.
Non riesco a togliermi quel manifesto dalla testa perché riaccende le pagine più oscure dell’antisemitismo sovietico. Dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando Israele sconfisse i suoi vicini arabi intenzionati a distruggerlo, l’antisionismo divenne pilastro della propaganda sovietica: “sionismo” divenne virtualmente sinonimo di identità ebraica. Fu allora che prese piede l’idea antisemita, negazionista della Shoah, di Israele come erede del nazismo e del fascismo. Nelle vignette politiche sovietiche, la svastica si intrecciava alla Stella di Davide, e i soldati israeliani erano rappresentati come truppe naziste. Un libro del 1971, Il fascismo sotto la stella blu di Evgenij Evseev, ne fu un esempio emblematico. Nell’illustrazione del frontespizio, un ragno nero con una svastica e una stella di Davide sul dorso; la sua tela avvolgeva l’Occidente. Nell’Italia di oggi, dove la sinistra radicale ha avuto radici profonde e l’Unione Sovietica un tempo godeva di un culto diffuso, la mobilitazione pubblica contro Israele ha raggiunto livelli senza precedenti. Come potrei, io, ebreo ex sovietico che aveva visto nell’Italia la propria casa europea, non disperarmi?
Devo ora parlare della gratitudine ebraica — e, in particolare, di quella degli ebrei provenienti dall’ex Impero russo e dall’Europa orientale — e raccontare la mia storia italiana.
Dopo la Seconda guerra mondiale e la Shoah, l’Italia aprì le sue frontiere ai sopravvissuti ebrei e ai profughi. Molti, incapaci o restii a tornare alle proprie case, cercavano un porto italiano da cui salpare verso la Terra Promessa, dove stava per nascere lo Stato ebraico. Negli anni ’70 e ’80, decine di migliaia di ebrei ex sovietici senza patria passarono per l’Italia, diretti per lo più verso Stati Uniti e Canada.
Salvo gli ultimi anni del fascismo, dopo il Manifesto della razza del 1938, l’Italia non aveva conosciuto un antisemitismo di matrice razziale. Fenotipicamente, gli ebrei si sentivano più “anonimi” nelle strade italiane che in quelle slave o tedesche, dove apparivano diversi, stranieri. Ricordo la sensazione di sollievo che provai nell’estate 1987, vivendo in Italia con i miei genitori. Mio padre, lo scrittore David Shrayer-Petrov, scrisse dell’onnipresenza dei “geni ebraici” tra gli italiani e di come si riconoscesse nei volti “biblici” degli uomini italiani. Personalmente, non ho mai incontrato aperti pregiudizi antisemiti da parte di italiani nativi. Forse sono stato fortunato: so di altri ebrei o israeliani che invece li hanno subiti, anche attraverso le prese in giro dei figli a scuola come “agenti del colonialismo”.
Per placare un po’ del mio tormento, ho deciso di scrivere una lettera. Tra il 6 e il 9 ottobre 2025, ho inviato un’email a colleghi, intellettuali e scrittori italiani che conosco. La maggior parte vive in Italia, alcuni negli Stati Uniti. A metà della lettera ho menzionato il manifesto antisemita fiorentino (che qui ometto); il resto suona così:
Caro [amico italiano],
La scorsa settimana è stata molto difficile per me. Ho seguito con angoscia i recenti parossismi di odio verso Israele in Italia.
[…]
Come sai, l’Italia è per me un luogo speciale, che ho sempre considerato la mia casa in Europa. Temo che i manifestanti abbiano oltrepassato il confine tra la solidarietà con il popolo palestinese e la manifestazione di un antisemitismo aperto. Ciò che mi addolora di più è vedere in prima fila, tra i manifestanti, intellettuali e artisti italiani, alcuni dei quali conosco personalmente. Si rendono conto che non stanno aiutando la pace né alleviando la sofferenza a Gaza, ma rafforzando il potere di Hamas? Non desiderano forse che palestinesi e israeliani vivano in pace e dignità?
Sento che il mio amore per l’Italia è messo a una prova inimmaginabile. Perdonami questo messaggio di disperazione. Mi piacerebbe conoscere il tuo pensiero.
Un caro saluto e grazie,
Maxim
Ho inviato più di venti lettere, allegando la foto del manifesto “Popolo eletto” dell’artista fiorentino Stefano Galli. Finora mi hanno risposto in sette. È difficile, e al tempo stesso non lo è, interpretare i silenzi. Tre risposte condannavano senza esitazione l’odio dei manifestanti verso Israele. Altre tre hanno espresso parole di solidarietà, suggerendo al tempo stesso spiegazioni sfumate che includevano critiche sia a Netanyahu e alla condotta di Israele a Gaza, sia alla sinistra italiana.. Due usavano la parola “genocidio”. Una affermava che “un solo idiota artista fa meno danni di un governo che compie un genocidio”. Tre sostenevano che le proteste non fossero contro gli ebrei in quanto tali, ma contro Israele e il suo governo. Alcuni aggiungevano che molti italiani sono irritati con il primo ministro Meloni per il rifiuto di riconoscere lo Stato palestinese.
L’analisi più lucida è arrivata da uno scrittore del Nord Italia, che ha descritto quanto avviene come una “isteria collettiva”. Molti italiani, spiegava, reagiscono a un miscuglio di fatti, disinformazione e propaganda, costruendo una sorta di immagine neoromantica dei palestinesi come simbolo della loro stessa rabbia. Una parte della sinistra italiana mostra doppi standard evidenti: basti pensare al poco sostegno all’Ucraina e alla difesa degli “interessi russi”. Molti intellettuali di sinistra più anziani vivono la situazione attuale come un ritorno agli anni ’70, alla contrapposizione URSS-USA, con le simpatie ancora rivolte all’URSS.
Un altro interlocutore mi ha confortato citando i sondaggi di Alessandra Paola Ghisleri: malgrado l’impressione data dai media, “gli italiani nelle piazze appaiono più divisi”. Altri due hanno sottolineato che la maggioranza dei manifestanti era sincera nel voler cambiare la situazione in Palestina e non animata da antisemitismo. Forse. Ma vorrei concedere la possibilità che molti di loro “sinceramente” credano possibile giudicare – anzi, vilipendere – Israele senza alimentare l’odio verso gli ebrei. E per questo devo interrogarmi sul diritto morale degli italiani di oggi e di altri europei, di giudicare lo Stato ebraico.
Il 5 ottobre 2025, a Monaco di Baviera, si è tenuto un raduno contro l’antisemitismo. Tra gli oratori, Erich Sixt, presidente del consiglio di sorveglianza della società di autonoleggio Sixt, nato nel 1944. Al centro del suo discorso emozionato c’era proprio la questione del diritto dei tedeschi a giudicare Israele:
Qui si è spesso parlato di critiche a Israele, della politica israeliana, della soluzione dei due Stati. E vi dirò una cosa, è qualcosa che mi preoccupa, una preoccupazione molto personale: noi, in quanto tedeschi — e parlo qui da tedesco — non ci è permesso esprimere critiche a Israele. […] No, non ci è permesso farlo, non a noi, non ai tedeschi. [Così facendo], non facciamo altro che fomentare l’antisemitismo, alimentiamo l’antisemitismo. […]
E gli italiani? Quanti condividerebbero la prospettiva di Sixt? Pensano davvero, i manifestanti, di avere un diritto morale di giudicare lo Stato ebraico?
A Francesca Albanese, che ha fatto della demonizzazione di Israele la missione della sua vita, e a tutti gli istigatori e facilitatori dell’odio anti-israeliano italiano, dico questo: la nazione che inventò il ghetto; che nel 1938 adottò leggi razziali sul modello di Norimberga, escluse gli ebrei dalla vita pubblica e non impedì – anzi, in alcuni casi agevolò – la deportazione di circa un quinto dei suoi 39.000 ebrei nei campi di transito e poi in quelli di sterminio, una tale nazione non ha diritto morale di giudicare Israele.

L’amore, però, non è questione di giudizio morale. L’amore è ciò che il cuore sente e l’anima comanda. Un amico, anch’egli ebreo ex sovietico, mi ha mandato di recente le foto delle piazze toscane dove un tempo sedevamo con colleghi italiani. “Abbiamo la nostra Italia”, mi ha scritto, cercando di consolarmi. E aveva ragione. È difficile disamorarsi dell’Italia.
Ma è altrettanto impossibile dimenticare ciò che è accaduto. Con la recente ondata d’odio verso Israele, l’Italia ha inscenato un dramma nazionale di rancore contro la stessa promessa della sopravvivenza ebraica. È un fatto innegabile e indelebile: una macchia rosso-bruna nella storia italiana del dopoguerra.
*Maxim D. Shrayer, autore bilingue e professore presso il Boston College, è l’autore di più di trenta volumi, il più recente, Zion Square. Tra i suoi libri in italiano ricordiamo Aspettando America, Fuga dalla Russia, e Immigrato Russo.
© Traduzione dall’inglese di Anna Balestrieri
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