di Anna Coen
Un libro irrinunciabile per capire le guerre di Israele dal 1948 a oggi. Lo storico Claudio Vercelli ci guida e fa chiarezza tra revisionismi e narrazioni parziali. Fino alla più stringente attualità
In occidente, della storia del conflitto israelo-palestinese, si parla tanto e si conosce davvero poco (come della storia di altri popoli e conflitti dei quali però non si ha timore di ammettere l’ignoranza e si sta quindi opportunamente in silenzio). Eppure è una storia breve, poco più di 100 anni. Perché la narrazione ideologica tende invece a prevalere sull’approfondimento storico? Ne parliamo con Claudio Vercelli, che ha appena pubblicato una nuova edizione del suo classico Storia del conflitto israelo-palestinese, aggiornata alla guerra a Gaza post-7 ottobre 2023, fino all’estate 2025.
Il conflitto arabo-israeliano è stato segnato nei decenni anche da contrapposte letture storiche, non di rado sconfinanti nei miti fondativi, in narrazioni contrapposte. Dopo gli accordi di Oslo, i nuovi storici israeliani, uno fra tutti Benny Morris, hanno avviato una revisione storiografica. Qualcosa di analogo è avvenuto in campo palestinese?
Partiamo da una premessa: “fare storia” richiama molte implicazioni. Per nulla prevedibili. La prima di esse è il riconoscere che – così come esistono diversi modi di considerare e valutare gli stessi eventi – del pari ci sono stagioni culturali differenti. Soprattutto rispetto alle sensibilità prevalenti. In altre parole, ci riferiamo alle priorità collettive che, come tali, differiscono nel corso del tempo. “Fare storia”, infatti, non vuole dire costruire un asettico repertorio di eventi, tali in quanto posti in mera successione; semmai si tratta del dare ad essi una concatenazione logica e analitica, a beneficio della comprensione del presente. Per quanti non c’erano e per coloro che, oggi, cercano nel passato le radici del proprio tempo. A tale riguardo, i punti di vista possono essere molto diversi. Se non altro poiché distinti sono gli interessi in gioco, degli individui così come delle collettività. Rimane tuttavia il riscontro del cercare di trovare un comune denominatore. Quanto meno cronologico: le storiografie – quella israeliana e quella palestinese – hanno infatti conosciuto tempi, modalità ed espressioni tra di loro molto differenti. A ricalco delle distinte evoluzioni nelle rispettive società nazionali. Nel caso israeliano si è transitati da una storiografia auto-celebrativa, ovvero basata sulla necessità d’incensare la nascita, la crescita e l’affermazione del movimento sionista, a letture – tra di loro anche molto differenti – il cui tratto comune rimane comunque un percorso critico verso se stessi e il mondo circostante. Sul versante palestinese, dagli anni Sessanta in poi, sono subentrati diversi approcci. Nella loro singolarità, tuttavia, risultano accomunati dal bisogno di definire l’identità palestinese come quella dell’apolidia. In chiave puramente militante. Oltre ad essa, i più non riescono ad andare. A rischio di generare un racconto su di sé ai limiti del mitologico. Qualcosa del tipo: “c’era una verde vallata; poi, sono subentrati i sionisti, che hanno distrutto tutto”. Si tratta di un limite, quest’ultimo, fondamentale.
Perché si dà la prevalenza all’elemento ideologico sull’approfondimento storico?
In qualsiasi storiografia, quello che conta è la capacità di confrontarsi con l’evoluzione dei tempi. Ossia dei costumi, dei pensieri prevalenti, delle mode culturali, dell’immaginario collettivo. Al pari dei consumi materiali e culturali. Quindi, con la capacità di raccoglierne i molteplici frutti. Al nostro tempo, in fondo, tutto ciò non costituisce comunque un’eccezione. Il “fare storia”, infatti, non risponde ad un mero bisogno di conoscenza del passato, tale in quanto soddisfatto, nel suo insieme, nel momento medesimo in cui quest’ultimo viene esplorato. Semmai un tale agire assolve piuttosto alla necessità di trovare nei suoi cascami un qualcosa che – rispetto all’oggi – possa immediatamente servire per preservarsi nel merito del deserto delle prospettive a venire. Quindi, un simulacro di “identità” al quale aggrapparsi per non essere trasportati, e annientati, nel vuoto della “globalizzazione”. Argomenti tanto difficili quanto astratti? Non credo. Posto che, quando si teme il futuro ci si rifugia in un presente cristallizzato, composto di rimandi a quel che pensiamo sia stato, senza invece interrogarci più di tanto sulle infinite contraddizioni del tempo trascorso. Contano in tutto ciò anche gli esiti degli studi postcoloniali, così come delle teorie dell’interserzionalità: da loro rispondendo – quindi – alla crisi del marxismo e dello storicismo. Al pari della sopraggiunta inefficacia del liberalismo individualista. Comprendo che ciò, rispetto ai più, poco o nulla possa dire, in piena franchezza. In quanto non sta al gioco delle facili identificazioni pseudo-moralistiche: destra piuttosto che sinistra; “occidente” al posto di “oriente” e così via. Ma qui stiamo parlando soprattutto di ciò che è conosciuto come “uso pubblico della storia”. Ossia, di una sorta di fenomeno che, al netto del calco ideologico originario, impressiona ed indirizza comunque l’intero dibattito pubblico. Quindi, di un qualcosa di profondo. Laddove la “cronaca” quotidiana si confonde, da subito, con le chiavi di lettura di lungo periodo, che preesistono e sopravvivono comunque ai riscontri di fatto. Anche a rischio di piegare il senso di questi ultimi.
Qual è la chiave per guardare storicamente il presente?
Il presente, per essere compreso, tende a divorare il passato. Ossia, a piegarlo rispetto alle esigenze del nostro momento. La “domanda di storia” avanzata in questi anni – infatti – spesso risponde più al bisogno di avere conferme rispetto ai propri convincimenti precostituiti che non all’effettivo riscontro, sia pure a denti serrati, dei significati delle trasformazioni in corso. Non è un problema solo ebraico. Si tratta di una tendenza prevalente un po’ ovunque. Poiché, come diceva Alberto de Bernardi, «nell’era della comunicazione globale questo impegno ha di fronte a sé un fenomeno inedito, che complica il lavoro dello storico nello spazio pubblico: deve confrontarsi infatti con una nuova condizione dell’uomo contemporaneo stretto, da un lato, dalle spinte all’oblio, proprie del consumismo di massa che svuotano di senso il passato e dal crescente dominio di un presentismo evasivo e senza radici che rompe il nesso fondamentale tra passato e futuro; dall’altro lato, dall’essere immerso nella storia, parte integrante di ogni discorso pubblico e di ogni costruzione identitaria, di cui però possiede strumenti sempre più deboli per orientarsi al suo interno e riconoscerne la complessità delle sedimentazioni mentali e materiali che la innervano. Il passato diventa così una componente della babele dei linguaggi in cui l’uomo della società globale è immerso, invece che essere uno strumento critico per decodificarli, aiutandolo nel suo processo di formazione come cittadino consapevole». Anche da questa matassa bisogna, quindi, ripartire.
Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, nuova edizione 2025 aggiornata e ampliata, pp. 280, 19,00 euro
Foto in alto: Allenby, Shenkin e King George Streets, Tel Aviv 1934 (courtesy Kluger Zoltan, GPO).



