Storia di una stella gialla

Libri

di Sofia Celadon

Immobile, ferma, cucita su questo strano pigiama con le righe. Così sembra prospettarsi la mia vita d’ora in avanti.
Destinata a restare muta per il resto dei miei giorni, capace solo di guardare, ascoltare. Ora sono ammucchiata insieme ad altre mie compagne, anche loro fisse su quegli strani indumenti. A quanto pare siamo destinate ad un compito molto speciale, o almeno così ho sentito da quella strana persona che passa il filo tra la mia trama di stoffa. E aspetto, in una strana stanza maleodorante. Ad un tratto si avvicina un alto e imponente ufficiale, con un lungo fucile sotto il braccio. Mi prende con forza e scrive sopra alla mia stoffa gialla qualcosa, ma non so dire cosa sia. Devo dire che un po’ mi fa il solletico. Malamente mi piega, lasciandomi bene in vista. Cammina per qualche minuto, fino a che non mi porge ad un altro strano uomo. Costui però è fragile, con lo sguardo assente e i capelli radi. Mi guarda con aria avvilita e, senza emettere un suono, indossa il pigiama a cui io sono legata.

L’ufficiale gli dà una sonora bastonata sulla schiena, sento fremere il suo corpo, dopo di che lo spinge via. Come mai l’ha picchiato? Che ha fatto di male questo mio nuovo padrone? Trema, sento la paura scorrergli nelle vene. In lontananza vedo delle baracche malconce e una lunga rete, avvolta da filo spinato. Come se fossi finita in una gabbia per animali pericolosi. Il mio padrone cammina piano, con le spalle curvate. In quello strano campo vedo delle mie compagne muoversi insieme ai loro proprietari, ma anche altri simboli, come dei triangoli colorati, una sorta di marchio indelebile. Tutte loro hanno sopra scritto un lungo numero, che ne abbia uno anche io? Credo di sì, ricordo la pressione di quell’ufficiale.

Ecco che arriva un altro ragazzotto in uniforme, che con forza bruta scaraventa a terra me e tutto quello che mi porto dietro, gettandomi addosso un pesante piccone. La massa di quell’arnese schiaccia il povero padrone, che si alza pian piano, mettendosi l’attrezzo sulla spalla. Si dirige verso un altro gruppo di persone come lui, che stanno spaccando delle grosse pietre immersi nell’aria gelida. Comincia anche lui quei meccanici movimenti, mentre nelle sue vene sento il suo sangue farsi sempre più freddo. La sua pancia brontola per la fame ma non parla, non emette alcun sibilo.
Vedo uomini distrutti, scavati dal dolore, e i loro marchi bene in vista sui loro spenti pigiami a righe. Nessuno fiata, con la testa china continuano a lavorare, e vengono frustati e derisi dai soldati. Ogni tanto uno di loro, senza alcun criterio, viene allontanato dal gruppo. Subito dopo si sente uno sparo, così assordante da impazzire.

Come mai questi poveri uomini sono rinchiusi qui? Possibile che sia io la causa dei loro mali? Come mai? In fondo sono solo una comunissima stella gialla di David, cosa ho fatto di male? Una mente perversa deve esserci dietro a tutto questo, qualcuno di estremamente crudele. Eppure io sono solo un semplice pezzo di stoffa, non posso far niente per aiutare queste persone. Posso solo ascoltare, guardare. Intorno regna un silenzio pesante e aleggia un’atmosfera di morte. Continua così finché il sole cala, senza mai fermarsi un attimo. Insieme agli altri, il mio padrone si dirige verso una baracca sudicia, stretta. Saranno quasi trecento le persone ammucchiate lì, senza cibo, acqua o coperte. Solo dei grandi letti a castello, di legno duro. Stanno tutti stretti, abbracciati gli uni agli altri, per provare a dare sollievo al freddo. Sento i corpi vibrare, le mie sorelle soffrire per la pena che hanno queste persone. Sento qualcuno piangere, cercando di nascondersi. E chi non piangerebbe in quelle condizioni? Passa una lunga notte, il corpo del mio padrone si contorce. Percepisco che ha dei forti dolori alla schiena. Ed è solo l’inizio.

Sono passati mesi e mesi da quella volta che ho varcato il cancello di questo strano campo. Ho visto la morte in faccia, il terrore e la fame impossessarsi dei corpi di queste persone. Sento che il mio padrone ormai è come se stesse svanendo nel nulla. La stoffa appoggia su delle ossa malconce, sento il battito debole. Ogni tanto le gambe gli cedono e finisce steso a terra, senza poter rialzarsi per molte ore. Eppure nessuno lo aiuta, riceve solo pesanti percosse sulla schiena. Ho visto i volti scavati di questi poveri uomini, con gli occhi vuoti, incapaci di reagire. Ho visto cadaveri, come sacchi vuoti, trascinati sulla terra riarsa , dopo le esecuzioni del mattino. Con vergogna, disprezzo, venivano gettati in grandi fosse a marcire, fino a che qualcuno non li prendeva e li gettava in grandi forni. Noto il fumo nero che esce dai camini. Odora di morte.

Ho visto persone entrare nella fasulla infermeria, e non uscire mai più. Non ho idea di cosa accade là dentro ma di sicuro lì uccidono le persone, non le curano. Ora il mio padrone è seduto ai piedi della sua baracca, senza più energia vitale.
È notte. E le stelle brillano in cielo. Perché devo vedere tutta questa sofferenza? Perché mai trattare delle persone peggio delle bestie? Ad un tratto il mio padrone si alza, a stento si tiene in piedi. Si avvicina alla grande rete di filo spinato, proprio lì vicino. So cosa sta per succedere, ne ho visti tanti fare come lui. Chi non ce la fa più si uccide, buttandosi su quel ferro gelido elettrificato. Lo capisco, il mio padrone. In questi mesi ha sofferto le pene dell’inferno. Le ossa sono l’unica cosa che ancora gli appartengono. Non ha più carne, né un’anima. È stato svuotato, umiliato. Percepisco il suo flebile battito, sempre più spento. Si lancia e una scarica attraversa le trame della mia stoffa, bruciandomi. Sento le sue urla, disperate e liberatorie, qualche goccia di sangue che mi cola addosso, il petto che preme contro di me. Quanto sarà durato? Pochi secondi. Finisco in mezzo alla neve, insieme alla macchia rossa. Arrivano quasi subito a prelevare me e quel cadavere che io conservo e che avrei voluto proteggere. Come tante mie compagne verrò incenerita e di me non resterà alcuna traccia. Ma spero che gli uomini non dimentichino mai queste atrocità e salvaguardino la memoria di questi poveri uomini senza più un’anima.

 

Il racconto è stato scritto da Sofia Celadon, 19 anni, subito dopo aver sentito la testimonianza di un sopravvissuto al Liceo in occasione del Giorno della Memoria. È inserito nel libro PAROLE DEL MIO MARE  di Sofia Celadon, edito da Pluriversum Edizioni