Mussolini proclama le leggi contro gli ebrei

Mussolini e gli ebrei: la via italiana alla catastrofe (e quella “benevola” auto-assoluzione collettiva)

Libri

di Claudio Vercelli

Come si arrivò alla Leggi razziali del 1938? Quale il tratto peculiare dato dal dittatore alla persecuzione degli ebrei? Il Duce mise a punto un “modello originale” di razzismo antiebraico? Sì, risponde lo storico Michele Sarfatti in un saggio. Smentendo i luoghi comuni sugli “italiani brava gente” e le false credenze: non si trattò di fare un “regalo” all’alleato nazista

 

Al ripetersi di una mitologia consolidata, quella per cui l’apparato discriminatorio, e poi persecutorio, contro l’ebraismo italiano e gli ebrei in Italia sarebbe stato il prodotto di un atto di deferenza politica e di allineamento ideologico alla volontà di Hitler, la risposta che deve essere data richiede l’analisi fredda e obiettiva delle fonti documentarie. Da molti anni Michele Sarfatti, già direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea CDEC di Milano, dedica i suoi studi a identificare e ad argomentare con dovizia i riscontri sulla volontà mussoliniana e sull’impegno del regime per dare corpo a un organico razzismo antiebraico nel nostro Paese. La nuova edizione di Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938 (Silvio Zamorani editore, Torino 2017, pp. 221, euro 28,00), si presenta ai lettori italiani, ventitré anni dopo la sua prima pubblicazione, con un corredo di documenti e ulteriori riflessioni dell’autore medesimo, che sostanziano ancora meglio il senso dell’oggetto della ricerca, ossia la traiettoria dell’antisemitismo fascista.

Il lavoro di scavo sistematico, compiuto dallo studioso tra le fonti, ci restituisce l’ampia intelaiatura che ne è parte, smentendo incontrovertibilmente la fiera dei luoghi comuni su un fascismo che sarebbe stato tendenzialmente a-razzista, almeno fino a quando la guerra non si approssimò, nonché animato da un antiebraismo recalcitrante. Il 1938, da questo punto di vista, segnò il passaggio da «una complessa politica discriminatoria a una dura politica persecutoria». Tuttavia, la filiera delle intenzioni e poi delle decisioni si articolò in un arco di tempo e attraverso una qualità del processo decisionale ben più corposi di quanto un anno, pur decisivo, non possa ora dirci e consegnarci. Poiché essa era, al medesimo tempo, un punto di arrivo e un punto di partenza.

Punto di arrivo rispetto alla costruzione e alla diffusione del tema della «questione razzista», in chiave antisemitica. Punto di partenza per la sua traduzione in atti legislativi, ovvero in una politica di Stato che era componente integrante della definizione di una nuova identità italiana fondata sui processi discriminatori, sulla vessatorietà amministrativa, sull’esclusione sociale e, successivamente, sulla persecuzione delle esistenze di quegli italiani che, invece, non erano più considerati tali.

Il campo d’indagine di Sarfatti rimane quello dell’identificazione delle modalità e dei passaggi attraverso i quali Mussolini, tra febbraio e novembre 1938, pervenne a impostare e poi a tradurre in atti concreti la «persecuzione legislativa antiebraica». La rilevanza e la fecondità di questo approccio deriva dalla centralità di Mussolini all’interno degli equilibri tra poteri fascisti ma anche dal tratto peculiare che il dittatore concorse nel dare all’impianto legislativo in corso d’opera. L’autore ha particolare cura nel distinguere alcuni elementi endogeni nel definirsi del regime persecutorio, separando gli ambiti della convinzione (la maturazione del pensiero antisemitico) e dell’enunciazione (la formulazione pubblica del medesimo) da quello dell’azione, cioè del complesso di atti e fatti che traducono l’una e l’altra in una dimensione continuativa, informata ai principi della legge oltreché della politica. Su quest’ultimo aspetto, quindi, si sofferma con la sua ricerca. A ciò coniuga, ben consapevole del peso che hanno assunto nel dibattito collettivo, il «preventivo rifiuto» di tre percorsi interpretativi altrimenti assai comuni, ossia lo «Shoah-centrismo», il «nazi-centrismo» e il cliché che continua a consegnare agli italiani una patente di sostanziale estraneità nei confronti del razzismo. Nessuno dei tre, qualora decontestualizzati, ha infatti in sé un valore esplicativo. La Shoah, se è storicamente la stazione terminale dell’antisemitismo biologico e apocalittico, non è la chiave per comprendere ciò che la precede. Quanto meno, non può esserne l’elemento esclusivo, rischiando altrimenti di appiattire la complessità e la varietà delle manifestazioni antisemitiche, nei due decenni precedenti alla catastrofe, sulla base degli effetti che se ne misurarono poi durante la guerra. La medesima cosa può essere detta a corredo di quegli approcci che rimandano alla Germania di Hitler come matrice esclusiva, o comunque prevalente, dell’antiebraismo europeo, esentandosi dal ragionare sulla creazione e il rafforzamento di “tradizioni del pregiudizio” nazionali, a partire dalla stessa Italia, a volte destinate ad incontrarsi e a ibridarsi con quella tedesca. Ovvero, a rafforzarla, influenzandone quindi alcuni tratti.

L’attenzione esclusiva nei confronti dell’antisemitismo hitleriano si incrocia semmai con il bisogno di rinnovare lo stereotipo dell’inabilità nostrana ad assumere in proprio pratiche discriminatorie, vessatorie e poi persecutorie della minoranza nazionale ebraica. Fino a giungere ad una benevola autoassoluzione collettiva. Benché la storiografia si sia posta nel corso del tempo quest’ordine di problemi, la discussione pubblica è ben lontana dall’averli accettati come elementi di un approccio critico, e analitico, nei riguardi del passato collettivo. In Sarfatti non c’è l’impellenza di rilevare i ritardi o le amnesie di coscienza bensì il bisogno di argomentare su un’adeguata conoscenza. Anche per questo la figura e il ruolo di Mussolini tornano ad essere capitali, avendo egli concorso attivamente alla definizione della natura del «problema ebraico» e, soprattutto, all’identificazione degli strumenti legali per porvi rimedio. L’autonomia italiana, quindi, ne emerge in maniera senz’altro incontrovertibile attraverso l’indagine dell’intensa attività che tra l’inizio e la fine del 1938 caratterizzò l’impegno del duce fascista, il quale si dedicò «allo studio e all’elaborazione di un’impostazione legislativa che fosse coerente con le caratteristiche proprie del fascismo, dell’Italia, della loro collocazione internazionale. Questo vero e proprio lavoro fu da lui condotto con attenzione, con consapevolezza degli effetti sulla realtà delle norme via via progettate, con piena autonomia e con ampie collaborazioni. Egli si impegnò nella definizione di un modello originale di persecuzione degli ebrei». La qual cosa rafforza la consapevolezza, a distanza di settanta e più anni, della centralità dell’apparato normativo varato nel 1938, e poi corroborato delle successive persecuzioni, nel definire i tratti non solo degli esclusi ma anche dei caratteri degli inclusi, ossia dei possessori di quel «sangue italiano» che avrebbe dovuto dominare un nuovo ordine mediterraneo.

Michele Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei, Silvio Zamorani editore, Torino 2017, pp. 221, euro 28,00.