di Cyril Aslanov
[Ebraica. Letteratura come vita]
Nel suo quarto romanzo pubblicato all’inizio di quest’anno (Shi’urim be-fituah qol “Lezioni di sviluppo della voce”), la scrittrice israeliana Dorit Rabinyan torna ad argomenti iraniani, come nei suoi due primi romanzi: Simtat ha-shqediyot be-Omrijan (“Il vicolo dei mandorli ad Omrijan” – 1995), pubblicato in italiano nel 2000 con il titolo Spose persiane, e Ha-Hatunot shelanu (“I nostri matrimoni“ – 1999), pubblicato in italiano nel 2002 con il titolo Le figlie del pescatore persiano. In queste due opere Rabinyan ricostruì degli universi molto coesi: un paesino sulle sponde del Mar Caspio in Spose persiane e la vita dei nuovi immigranti ebrei iraniani in un sobborgo di Netanya negli anni sessanta nelle Figlie del pescatore persiano. Nel terzo romanzo, Gader haya (“Siepe viva” – 2014), pubblicato in italiano con il titolo inglese di Borderlife (2016), viene descritto il confronto tra due mondi opposti (l’israeliano e il palestinese) attraverso una storia d’amore impossibile. Questo terzo romanzo non coinvolge nessuna relazione con un mondo iraniano perso o sopravvissuto all’immigrazione in Israele.
Invece nel quarto romanzo il tropismo persiano di Rabinyan si manifesta di nuovo, ma in un modo frammentato nell’ambito di un libro deliberatamente destrutturato e smantellato: la prima parte si presenta come la bozza di un romanzo su un amore proibito fra una sorella e un fratello; la seconda parte parla del blocco dello scrittore sperimentato da Rabinyan quando scriveva quella bozza; la terza, intitolata ha-lashon “la lingua”, è la cronaca dei mesi del COVID che l’autrice passò assieme alla madre in un piccolo appartamento di una città che potrebbe essere Kfar Sava, dove è nata l’autrice. Già in questa parte si percepisce l’atmosfera iraniana attraverso l’uso di parole persiane inserite nella catena discorsiva ebraica; la quarta parte è una retrospettiva nostalgica dove la narratrice risale nel tempo fino al 1981, quando aveva soli 9 anni, e passegiava con il padre nei quartieri squallidi del sud di Tel Aviv. Questa parte si chiama Zendeghi, “vita” in persiano, ed è ancora più ricca di parole e espressioni in quella lingua che la narratrice capisce solo parzialmente, come accade spesso fra i figli di immigranti esposti ad un intenso processo di ebraicizzazione linguistica nell’ambito del sistema scolastico israeliano. La quinta parte, intitolata “il ‘ventre’ del libro”, continua su questa nota nostalgica dove la dimensione linguistica (le parole persiane citate e l’accento iraniano in ebraico) gioca un ruolo essenziale.
Attraverso questo libro ispirato dal preteso fallimento nella scrittura di un breve romanzo intitolato Lezioni di sviluppo della voce (curiosamente tradotto in inglese come Nine singing lessons anche prima che esistesse una traduzione in questa lingua) Rabinyan evoca con molta autenticità un fenomeno ben conosciuto da chiunque abbia un rapporto biografico-famigliare con l’Iran. A partire della seconda generazione nata fuori del paese di origine, la conoscenza della lingua diventa sempre più approssimativa.
Eppure l’identità linguistica si mantiene attraverso una relazione a geometria variabile con la lingua erosa, ancora presente come retrofondo sonoro e come fonte di espressioni apparentemente intraducibili. Nella quinta parte del libro, Rabinyan usa una formula geniale per far capire questo legame paradossale con l’Iran dei genitori che sopravvive a tutti i tentativi di assimilazione all’ambito israeliano, italiano o americano (i principali luoghi della diaspora ebraica iraniana). Scrive: Hem mi-Iran higru le-Yisrael pa’am ahat, ve-ilu anahnu be-khol yom va-yom, me-ha-bayit ha-parsi la-rehov ha-yisraeli, mi kan le-khan be-khol boqer, ve-shuv ahar ha-tsaharaim, me-’olam le-’olam “Loro (i genitori) erano immigrati in Israele una volta sola, ma noi (immigravamo) ogni singolo giorno, dalla casa persiana alla strada israeliana, da lì a qui, ogni mattina e poi, ogni pomeriggio, da sempre e per sempre”.
La coscienza linguistica di Rabinyan è così affinata che nella prima parte di questa frase lei adotta una struttura sintattica totalmente persiana. Invece di scrivere come si aspetterebbe in ebraico moderno hem higru mi-Iran “erano immigrati dall’Iran”, rovescia l’ordine della parole di modo che la sua frase diventa: hem mi-Iran higru “come in persiano ânhâ az Irân muhâjarat kardeh bodand, letteralmente: “loro dall’Iran erano immigrati”. Un altro particolare che rivela l’orientamento post-sionista di Rabinyan è l’uso del verbo higru “erano immigrati” invece di ‘alu “avevano fatto la ‘alyah” che serve a riferirsi ad un’immigrazione verso Israele. Del resto, questo verbo higru “erano immigrati” è apparentato etimologicamente all’elemento arabo muhâjarat della perifrasi arabo-persiana muhâjarat kardan “fare immigrazione” nel senso di “immigrare”. Ma al di là di quelle considerazioni linguistiche ed ideologiche rimane un fatto di esperienza: anche tornati nella terra ancestrale (Israele) e a maggior ragione, quando sono sradicati in terre molto lontane dall’Iran (Milano; New York; Los Angeles), gli ebrei iraniani si sentono sempre esiliati da un paese al quale li univa una storia di 2600 anni.
Alle pagine 86-87 del libro, Rabinyan descrive un rituale centrale in ogni casa iraniana, non importa quale sia la religione praticata nella famiglia: ebraismo; islam; zoroastrismo; bahá’í; cristianesimo armeno: si tratta della preparazione minuziosa del riso, una pietanza presente ad ogni pasto.
La scrittura post-moderna e post-sionista di Rabinyan le ha permesso di fare riscaturire strati molto profondi della sua vita (zendeghi come ha intitolato la quarta parte di questo piccolo capolovoro), profondi come l’esperienza basica dell’alimentazione e di altre percezioni subliminali dell’atmosfera casalinga.