Assaf Gavron a Milano presenta “Le diciotto frustate”

Libri

Mercoledì 11 dicembre, ore 19.00, alla libreria Verso di Milano, Corso di Porta Ticinese 40, Assaf Gavron presenterà il suo ultimo libro “Le diciotto frustate” e sarà intervistato da Fiona Diwan. Ingresso libero.

di Fiona Diwan
La vita è più forte dell’amore ma alla fine viviamo per quei pochi istanti in cui l’amore brilla e illumina la nostra intera esistenza. Questo il leitmotiv romantico di un giallo, Le diciotto frustate (Giuntina, 18 euro, pp. 270), che in realtà tiene col fiato sospeso fino alla fine e che lo scrittore israeliano Assaf Gavron, 52 anni, otto romanzi all’attivo, traduttore di Philip Roth e Jonathan Safran Foer, dipana con humour e perizia dalla prima all’ultima pagina. C’è un tassista intuitivo che si improvvisa detective, un tipo crepuscolare, pulsionale, un ghever (israelianamente parlando, un maschio con gli attributi); c’è un amico geniale dal talento logico-deduttivo che lo aiuta; c’è un mistero da risolvere e una catena di inspiegabili omicidi. Ma la verità si nasconde sempre in fondo al pozzo: in questo caso, il pozzo è l’epoca del Mandato Britannico, prima della nascita dello stato d’Israele, e un’insolita storia d’amore tra due ragazze ebree e due militari inglesi, una vicenda che ci consente di gettare uno sguardo a un mondo che è stato controverso ma storicamente importantissimo, quello della Palestina mandataria. E poi, le donne: femmine fatali, ironiche, argute, spregiudicate e neanche a dirlo romanticissime. C’è Tel Aviv che scorre come un film, vista dai finestrini aperti di un’auto pubblica. C’è il fascino di alcuni quartieri della città raccontati con sofisticato acume antropologico dal tassista protagonista. C’è la fauna umana che abita questa città e che sale sul suo taxi a tutte le ore del giorno e della notte. C’è l’amore, che illumina le nostre esistenze a 18 anni come a 80 anni. Gavron conosce a menadito l’arte del grande giallo americano contemporaneo, dalle glorie hard boiled di un tempo alla lezione delle crime novels di Elmore Leonard: arte dei dialoghi e andamento cinematografico. Così, con arguzia e humour, Assaf Gavron ci pilota dentro l’Israele di oggi, dentro le sue contraddizioni e il suo charme, tecnologia e Bibbia, aggressività e dolcezza, voglia di futuro e retaggio nostalgico, virilità e delicatezza.

Spassoso, divertente, fresco, con alcune scene che fanno sbellicare dalle risate. Gavron è bravo, quest’ultimo romanzo riconferma il talento di uno scrittore che già con altri due romanzi, Idromania e La Collina aveva sorpreso i lettori italiani: un’Israele del futuro, desertificata dal climate changing, distopica e senza più acqua, il pianeta Terra assetato e in mano alle multinazionali dell’acqua, un mistero da risolvere anche qui, in Idromania. E poi, ancora, humour e malinconia, tragedia e commedia nell’Israele degli insediamenti nazional-religiosi in La Collina, altro romanzo maturo e illuminante, capace di darci una chiave di lettura nuova e intensa sull’Israele di oggi. Infine, tra baracchini di shawarma e di street food da leccarsi i baffi, vialetti di cimiteri solenni e storici come il Trumpeldor, tra ingorghi epocali di traffico impazzito sull’Ayalon, Assaf Gavron ci tuffa, con Le Diciotto frustate, nella vibrante, caotica e seminale, sexy e romantica contemporaneità di una metropoli come Tel Aviv, non dimenticando mai di farci sorridere e divertire.

 

Un estratto:
Un taxi per il cimitero
Lasciai il mio tesoro a scuola, presi un caffè in piedi e tornai sotto la pioggia sottile al taxi parcheggiato in divieto di sosta con le doppie frecce accese. Nel momento in cui mi sedetti arrivò la chiamata: via Bin Nun all’angolo con via HaBashan. Se fai il tassista entri in macchina al mattino e non sai dove sarai cinque minuti dopo. Guidi, otto, dieci ore – direzioni diverse, gente diversa, conversazioni diverse – e di fatto non arrivi da nessuna parte.
Era vecchia ed elegante. Nonostante la pioggia, portava dei grandi occhiali da sole che le nascondevano lo sguardo, un foulard colorato le copriva parte dei capelli. La parte
scoperta era argentea e folta. «Ha fatto in fretta». Se fai il tassista puoi cogliere dalle prime due parole le sfumature della lingua e da quelle è possibile dedurre il resto – quando è nata, quando è immigrata in Israele e da dove, Shoah oppure no. Il mio radar si attivò e pensai: una tipica Yekke.
«Faccio del mio meglio» risposi guardando lo specchietto, in attesa. Sentivo i suoi occhi che mi osservavano, uno sguardo intenso nonostante il doppio filtro degli occhiali da sole e dello specchietto; le labbra ancora giovani e tinte di un rossetto rosso vermiglio, si aprirono in un mezzo sorriso: «Al cimitero Trumpeldor».
Ingranai la prima.
Viaggiammo in silenzio fino a via Ibn Gvirol. A quel punto domandai: «Sa che nel punto in cui è salita si trova la casa in cui Begin si nascondeva dagli inglesi?».
Amo raccontare ai miei passeggeri le storie delle strade dove li prendo o dove li porto. Di solito non sanno niente – né chi era Masaryk, né chi era Frug, e nemmeno chi era
Arlozorov. Nel cruscotto tengo un libro, Tel Aviv – Jaffa Una guida alle strade, che mi piace leggere quando ho qualche minuto libero.
Sorrideva mentre guardava fuori dal finestrino. «Se lo so?» disse. «La domanda è come fai a saperlo tu, ragazzino. Io sono di quell’epoca. Me lo ricordo». Guardò l’iPhone e aggiunse: «Mi piace come guidi, Eitan. Sei più tranquillo di altri tassisti. Ti ho già dato cinque stelle, e il tragitto è appena cominciato». Le sue labbra rosse sorrisero di nuovo.
«Grazie, Lotte Pearl,» ricambiai lo sguardo e il sorriso. Anche gli autisti hanno accesso ai nomi dei clienti attraverso la app; non solo loro ai nostri. Non parlammo più fino
all’arrivo al cimitero. Il sole fece improvvisamente capolino tra le nuvole riflettendosi sui vetri delle macchine in fila davanti a noi. L’inverno stava per finire. Il mio radar coglie nel segno nove volte su dieci. Non è solo il modo di parlare, ma anche come entrano nel taxi, l’abbigliamento, il linguaggio del corpo – io osservo e so già se il cliente è di Bat Yam, del nord di Tel Aviv o di qualsiasi altro posto, se mi darà la mancia e come mi tratterà. Ma quella mattina il mio radar non stava funzionando; c’era in Lotte Pearl qualcosa fuori dall’ordinario, un’insolita disinvoltura, e all’improvviso non ero più sicuro se fosse una Yekke o una Sabra  e cominciavo a dubitare anche sulla sua età. Mi lasciò una mancia generosa che non mi aspettavo, molto generosa, che mi rese ancor più confuso. All’ingresso del cimitero c’erano alcune persone con degli ombrelli neri. Uno di loro si affrettò verso il taxi, aprì…