Anime vagabonde in cerca di un sorriso

Libri

Da Leopoli a Beirut.

“Solo per uno scherzo del destino questo libro lo scrivo in italiano: la verità è che sarei potuto nascere in almeno tre altri diversi paesi”. Così parla Gad Lerner, giornalista, scrittore, 55 anni, alludendo a tutte le altre vite possibili che, alla stregua di molti ebrei, avrebbe potuto vivere se solo la casualità avesse dipanato il filo della Storia in modo diverso.
Altri luoghi, altri destini. Dalle pendici dei Carpazi ad Aleppo, da Boryslaw-Leopoli in Galizia, – città queste mutilate per sempre della loro rigogliosa civiltà ebraica-, fino alla luminosa Beirut di ieri e di oggi, Beirut “col suo splendore agonizzante, città fin troppo favoleggiata” ma incapace di redimersi da catene di lutti e lotte intestine. E infine Tel Aviv, Varsavia, la Milano degli anni ‘50.

Quelle che Lerner racconta nel suo nuovo libro sono storie di ebrei in sospeso tra cosmopolitismo e miseria provinciale, anime in viaggio lungo i sentieri tortuosi d’Europa e Oriente, tra memorie malvagie o compassionevoli, quasi sempre struggenti. “Nipoti degli shtetl, cresciuti in mezzo ai suq, levantini d’Europa, figli meticci di un Mediterraneo che ha perso i suoi millenari connotati” di grande crogiolo: l’epopea della famiglia Lerner è in fondo simile a quella di tanti ebrei che nel XX secolo videro la loro vita scardinata dalle circostanze storiche. Per essere poi ricostruita al prezzo di un senso di estraneità costante, un perenne sentirsi fuori luogo.

Di questo e molto altro racconta Scintille. Una storia di anime vagabonde (Feltrinelli), in libreria dall’11 novembre, (la presentazione con l’autore, alla Libreria Feltrinelli di Piazza Piemonte 2, sarà il 26 novembre, ore 18.30).
Molto di più di un memoir familiare, il libro di Lerner è l’avventura di tre generazioni, il ritratto di un epoca lunga un secolo, una riflessione sulla difficoltà di elaborare il dolore del passato. Dalle fosse comuni dei boschi polacchi di Bronica nei pressi di Leopoli (dove persero la vita i 100 mila ebrei della zona, tra cui alcuni dei Lerner), fino all’incendio della grande Sinagoga di Aleppo nel novembre del 1947, per mano di una folla inferocita che gridava yahud klabna, “gli ebrei sono i nostri cani”. Il libro, che fila come un romanzo, ci porta a zonzo per un Mediterraneo oggi balcanizzato ma orfano di una secolare storia di felici contaminazioni. Da sud a nord: il racconto è pieno anche di incontri speciali come quello, indimenticabile, con il roccioso Marek Edelman, eroe scontroso della rivolta del ghetto di Varsavia, padre della democrazia polacca e di Solidarnosc, che restò in Polonia invece di partire per Israele perché “io sono il guardiano delle tombe del mio popolo”.

Dalla Galizia alla Siria
“Le anime vagabonde, dicono i cabalisti di Safed, sono quelle di coloro che muoiono in circostanze ingiuste o dolorose e che non riescono a raggiungere l’aldilà, finendo così per scontrarsi l’una con l’altra, una frantumazione di nizozot ha-neshamot, che genera appunto scintille”, dice Lerner, spiegando il titolo del libro. Per la Qabbala, il vagabondaggio delle anime è una legge cosmica, un vorticoso movimento rotatorio definito gilgul. Non a caso gli eroi domestici di Lerner sono tutti protagonisti di un proprio gilgul, anime vagabonde scacciate fuori da se stesse.

Onora il padre e la madre
“Scrivere questo libro è stato per me una forma di riconciliazione con le mie radici, di pacificazione interiore, una ricerca di shalom, perché non c’è pace senza che ci sia anche schlemut, pienezza, interezza (non a caso la radice delle due parole è la stessa). È una riflessione su come la storia drammatica del XX secolo si sia riflessa nella mia esperienza di vita, sulle mie radici ashkenazite e sefardite. Il dolore vissuto in famiglia è una ferita profonda, lacerante, che spesso non siamo capaci di elaborare. Rimuovere il dolore delle origini non serve; ben lungi dal proteggerci, lo moltiplica. Se non elaboriamo il passato non possiamo riparare, non possiamo perdonare né tanto meno guarire la ferita dell’infanzia. Così ho sentito di dover tornare al quinto Comandamento: onora il padre e la madre, non trattarli con leggerezza se vuoi prolungare una vita degna e consapevole. Sforzati di comprenderli anche in ciò che non ti hanno trasmesso. Solo così ti rappacificherai. Scrivere sapendo che loro sono ancora vivi e che leggeranno questo libro lo considero un atto di affetto, di coraggio e di rispetto per loro.
“Ma la storia che racconto non guarda solo al passato, – prosegue -, ha a che fare anche con i nostri tempi, con le identità multiple, con la ricchezza meticcia, etnica e polifonica di cui è fatta la nostra modernità”. Così, lo splendido libro di Lerner ci porta a spasso tra le macerie fumanti della Beirut di oggi all’indomani dell’attentato a Rafic Hariri, nei quartieri di Hezbollah (Dahiye) e nei bar della dolcevita dove le donne più belle del mondo ridono noncuranti della carneficina che le circonda. E poi, ancora, in Israele a fianco delle forze italiane dell’Unifil o a recitare il kaddish per Uri, figlio di David Grossman, morto nell’ultima guerra del Libano. Nell’andirivieni del racconto, eccoci catapultati nel mondo galiziano dello scrittore Bruno Schultz (il Kafka polacco), con le sue donne sensuali e provocanti, e più nessuna bottega color cannella da visitare. “Ricomporre le tessere del mio passato familiare, le storie di mia madre Tali e di mio padre Moshè, e inserirle in quasi 100 anni di storia è stato un lavoro lungo, durato 10 anni”. Il risultato è questa specie di ricerca del tempo perduto in salsa galiziano-mediterranea, sospesa tra mondo sefardita e universo ashkenazita, che tocca l’anima e commuove il cuore: perché al centro del libro di Gad Lerner c’è una domanda fondamentale, che ogni essere umano prima o poi giunge a porsi. Ossia, è possibile riparare il male subito? Come possiamo misurarci col dolore dei nostri genitori, con la loro ferita di vivere? Come si cura il veleno dell’infelicità familiare, le memorie difficili che portano spesso genitori e figli all’incomunicabilità e al silenzio? Ovviamente non c’è una vera risposta se non nel senso di pietas, di rachmanut, di compassionevole misericordia che dovrebbe condurre, con una carezza, la mano del figlio verso la testa canuta del vecchio padre, e così facendo, forse perdonare lui e se stesso.

Ahi, l’incanto di Beirut!
Il vortice del racconto ci porta ai quattro angoli d’Europa e d’Oriente: immersi, ad esempio, nella raffinata leggerezza mondana della Beirut di adesso, città che sopravvive indenne a guerre e massacri, che si compiace del proprio mito rimanendo ottusa agli assalti della storia, (“Meglio Beirut sotto le bombe che Parigi sotto la pioggia”, ripetono le dame dei salotti): per loro, 15 anni di guerra civile e più di 150 mila morti sono divenuti ad esempio, les evenements, un simpatico eufemismo che la dice lunga sul senso libanese dell’understatement, (“e che diamine in fondo siamo anche noi gente di mondo!, e poi questo charme, questa prelibatezza di cibi, questa eleganza di modi, tutte le bellezze naturali, nessun altro luogo potrà mai competere con questo nostro Libano!”). Il paradiso resta il paradiso, anche se crivellato di colpi. Sembra di sentire il poeta Alphonse de Lamartine che vide nella morbida, seducente, idilliaca fusione mediterranea tra Oriente e Occidente, nel suo mare, il letto nuziale nel quale Oriente femminile e Occidente maschile consumano la loro unione. E poi Jounieh, Byblos, i Monti del Libano: Lerner ci conduce nell’incanto della Beirut degli anni ‘50, nel cuore delle memorie degli ebrei libanesi, tra le pergamene dei 110 Sifrei Torà patrimonio millenario dell’ebraismo dei cedri, e poi da Ajami per sedere ai suoi tavolini e imbambolarci nel piacere di gustare hummous e foul, nella clinica del dottor Khouri, o ancora nel salotto di lady Yvonne Cochrane, meglio nota come madame Sursock, ultima rampolla cristiano-ortodossa di una famiglia di dragomanni dell’impero turco divenuti col tempo mecenati, custodi del patrimonio d’arte nonché padroni di mezzo Libano. Beirut-Leopoli. Se qui si gioisce, là si muore, ebrei dai destini opposti, separati da qualche centinaio di chilometri di distanza. Eccoci allora catapultati nel cuore di tenebra dell’Europa, a fianco di quei 100 mila ebrei di Lemberg, un terzo della popolazione, finiti nelle fosse comuni naziste, un groviglio di corpi che giace sotto la foresta di Bronica, non diversamente dalle famiglie che dormono sotto la collina di Babij Yar a Kiev o di Ponary a Vilnius. Cancellati dall’Operazione Barbarossa, dai Sonderkommando dalla furia ucraina e dall’ateismo sovietico.

Curare le ferite di ieri
“Ma come si fa a eludere il dolore che la Storia ci ha recato? Eppure la nostra è un’epoca di rimozione che spesso si trasforma in malessere esistenziale, incapacità di guardare in faccia i drammi del destino patiti dalle nostre famiglie. Parlo non solo della Shoah, o dei morti delle guerre d’Israele. Ma anche degli sradicamenti, delle fughe, di un esilio continuo che ha portato ad esempio mio padre Moshè a saper parlare 5 lingue e nessuna come si deve. Continuiamo a vedere film e a leggere romanzi che parlano di questa o quella tragedia e poi, all’atto pratico, siamo incapaci di prenderci cura delle sofferenze degli altri, anche di membri stretti della nostra famiglia, di cui spesso ignoriamo tutto, traumi, dettagli del passato, le pieghe delle loro vicissitudini… Girare al largo dalle proprie ferite non procura quieto vivere ma malessere. Ho scritto questo libro anche per i miei figli. Mi sono detto: che esempio è il mio, io che non parlo nemmeno con mio padre? Intorno ai 50 anni viviamo tutti una specie di svolta. Una fase della vita in cui diventa importante restituire, tanto più se hai avuto successo, se sei stato fortunato. Ho sentito crescere in me un approccio più meditativo, riflessivo. E ho accettato di viverlo”.

Un’identità dinamica
E allora, caro Gad, in che cosa consiste l’identità ebraica? “Nel dinamismo, nel rifiuto dell’immobilità. Dobbiamo ricordarci sempre quella parashà di Bereshit, quel Lech lechà di Abramo: vai a te stesso, vattene dalla casa del padre verso la terra che Io ti indicherò, rompi gli idoli. Solo così troverai la tua strada, aggiungo io. Voglio insegnare ai miei figli l’importanza di coltivare una identità ebraica dinamica, fatta di movimento e non di fissità. Basta con forme di nostalgia imbalsamata, quello sguardo rivolto indietro che è un voler restar fermi a un tempo che è finito, morto e sepolto. In fondo, se penso alla mia famiglia, alla condizione ebraica del XX secolo, ebbene tutti vissero una condizione plurale, in equilibrio precario, sulla faglia di smottamento degli ex imperi, quello Ottomano e Austro-ungarico. Quell’armonia degli ex imperi non esiste più. Eppure abbiamo ancora un problema simile: l’impossibilità di identificare una nazione con un territorio preciso. Tutto è più fluido e dovremo tornare a quella polifonia di voci, di razze, di genti mescolate tra loro, a forme armoniche di convivenza, al meticciato e non all’identità basata sul sangue. Le nazionalità mescolate dell’Impero Ottomano e dell’Impero Asburgico sono lo specchio infranto nel quale si riflette ancora la nostra vita. Siamo tutti meticci, frutto di molteplici identità. Guarda me: mi sono ritrovato a sovrapporre tre patrie, italiana, israeliana, libanese e senza questa dimensione multipla non sarei me stesso”.