Alessandro Piperno, il fascino discreto dell’identità ebraica

Libri

di Fiona Diwan

Chi lo conosce da tempo se lo ricorda schivo e riservato. A incontrarlo oggi si fa fatica a sovrapporre questa immagine a quella dell’arguto signore, tutto battute e motti di spirito, che si para davanti. Dismesso il pesante cappotto della timidezza, Piperno indossa oggi un’aria simpaticamente impacciata e lievemente bon ton, a metà tra Woody Allen e Peter Sellers, condita da una certa autoironia e da un prorompente senso dell’umorismo. Principale bersaglio delle proprie frecciate è d’altronde se medesimo, impareggiabile collezionista di gaffe e di caricaturali sensi di colpa, sempre disponibile quando si tratta di far brutta figura, come chi ha passato la vita a sentirsi casuale e capitato lì per sbaglio, fuori posto e fuori luogo («Ho scommesso sul mio fallimento. Non so ancora se ho vinto o perso»).

Romano, 40 anni, vincitore del Premio Viareggio e del Campiello opera prima con il romanzo d’esordio “Con le peggiori intenzioni”, amatissimo dai francesi (ha vinto il Prix du meilleur ecrivain etranger ed è stato finalista al Prix Medicis e Femina), professore  all’università Tor Vergata di Roma,  Alessandro Piperno manda oggi alle stampe per Mondadori la sua terza prova letteraria, Inseparabili-Il fuoco amico dei ricordi, romanzo che chiude il dittico del precedente Persecuzione, pur essendo entrambe le opere da leggersi anche in modo disgiunto. Inseparabili è la storia della famiglia ebraica romana dei Pontecorvo, vista stavolta dal punto di vista dei figli Filippo e Samuel (mentre in Persecuzione, al centro della vicenda c’era il padre, medico e oncologo infantile, colpito ingiustamente dall’accusa infamante di pedofilia che si ritrova da un giorno all’altro, da stimato padre, marito e cittadino a precipitare nella condizione di mostro). Il tema di Inseparabili è invece una riflessione sugli effetti del successo mediatico e sulla perniciosa ricaduta della fama-celebrità sulle relazioni, sul carattere e sul proprio mondo affettivo. Una storia di famiglia alle prese con la scomposta volgarità dei media, che lotta con l’amore e il rancore, con la solitudine, i lutti, fino all’inevitabile resa dei conti. Quando lo si ascolta sul tema delle proprie origini, si ha a volte la sensazione che Piperno getti il sasso e nasconda la mano. E che flirti col proprio ebraismo come accade quando si insegue una ragazza che ti attrae e nel contempo ti respinge scappando via, e verso la quale, insicuro e timoroso, fai finta di ostentare noncuranza o indifferenza, senza riuscire, malgrado gli sforzi, a distogliere lo sguardo né l’attenzione. «Tecnicamente non sono ebreo, mia madre non lo era. Della parte ebraica della mia identità conservo per lo più una forma di commozione profonda verso il destino non sempre felice di coloro che mi hanno preceduto, soprattutto rispetto a ciò che è accaduto con la Shoah, un abisso che tocca le mie corde più intime. Non è facile essere un “mezzosangue”. Quando sono tra i cattolici mi danno dell’ebreo e quando sono tra gli ebrei, mi danno del cattolico. Decisamente le identità miste sono difficili da indossare. Già è complicato essere ebreo, figuratevi esserlo a metà!». Eppure, per Alessandro Piperno, la materia ebraica non è faccenda semplice da lasciar correre via, non certo una sapida spezia per dare più colore e gusto alla propria identità di scrittore, come alcuni pensano. E neppure un esaltatore di sapore nel proprio curriculum di scrittore a cui spesso l’ebraicità regala uno status elitario e creativo addizionale. No, niente “sferragliante giudaismo”, per usare le sue stesse parole. Per Piperno, la propria mezza identità ebraica è un elemento prezioso, più di quanto egli stesso sia disposto ad ammettere, non fosse che per il fatto che ne parla di continuo, ovviamente per prenderne le distanze e schermirsi. Un’ebraicità la sua da alcuni ritenuta poco interiorizzata e caricaturale. Di certo un elemento importante, non fosse che per la lunga tradizione letteraria ebraica di cui la storia del Novecento, abbonda.

La tradizione italiana

«Il lascito ebraico alla grande letteratura del nostro Paese è immenso. La lista è lunga: innanzitutto ci sono i triestini, Carlo Stuparich, Umberto Saba, Italo Svevo, e anche quel grandissimo che è stato Giorgio Voghera con il romanzo Il segreto dell’Anonimo triestino, libro che ha segnato la mia vita. E poi Alberto Moravia e Elsa Morante, Carlo Levi e Natalia Ginzburg, Primo Levi, Giorgio Bassani, per non parlare della tradizione di critica letteraria da Giacomo Debenedetti a Attilio Momigliano a Mario Fubini… Penso che per importanza e per numero, gli scrittori italiani ebrei meritino che ogni università istituisca una cattedra di Letteratura ebraica italiana». Spesso avvicinato a Philip Roth e al romanzo ebraico americano moderno, Piperno si sente in verità più in sintonia con la tradizione europea. “Gli scrittori ebrei americani partono sempre da una crisi individuale, il loro racconto si dipana da un conflitto interno, da un trauma. Al contrario, la generazione europea di scrittori si costruisce attorno a un nucleo di umiliazione, parte da una condizione deprivata, da un non-sentirsi adeguati, alla pari o all’altezza. Una condizione questa che l’ebreo europeo ha vissuto per secoli, quando per l’Europa cristiana essere antisemita non era affatto una cosa strana o riprovevole, anzi era socialmente d’obbligo. Parlare male degli ebrei nei salotti borghesi o aristocratici di Londra, Parigi o Berlino, avere nei loro confronti sentimenti di rifiuto, ripulsa o odio, era considerato del tutto normale e chi difendeva gli ebrei era malvisto. La letteratura ebraica del Novecento europeo prende le mosse a partire da quel rifiuto e, personalmente, è proprio questa la tradizione a cui mi sento più legato e non invece quella americana. In un clima come quello che si respirava in Europa fino alla Seconda guerra mondiale era ovvio che uno scrittore ebreo come Kafka ad esempio, volesse dissimulare se non occultare la propria origine. Prendiamo ancora Marcel Proust: ebreo ma anche snob e raffinato dandy. Per farsi accettare nel mondo aristocratico e nel salotto buono della Parigi di inizio Novecento del Faubourg Saint Germain deve dissimulare il proprio ebraismo, anzi addirittura ostentare fastidio verso gli ebrei. E del resto la stessa Recherche contiene figure di ebrei non sempre edificanti. Trovo infinitamente più commovente il giudaismo tragico di Kafka e Bruno Schulz rispetto a quello postmoderno e esibizionista della nostra epoca (in cui, tra l’altro, mi capita di indulgere). Ecco, se devo dire la verità, io mi sento più prossimo a questa tradizione che non a quella americana. Loro, Philip Roth, Saul Bellow, Bernard Malamud, non hanno vissuto la condizione di rifiuto di chi si sente ai margini. La loro narrativa prende le mosse da una crisi interiore, da una rottura che si produce nell’Io e non da condizioni generate all’esterno”.

Ma checchè Piperno ne dica, oggi la sua ebraicità -almeno così come ce la restituisce nelle sue storie-, diventa realtà culturale e sociologica da auscultare e analizzare con libertà di tono, spirito iconoclasta e un’ironia sarcastica molto più vicina alla letteratura americana ebraica che non alla tradizione europea.

Europa contro america

Semmai, come dice Piperno, è al mondo dell’inglese Howard Jacobson, alla sua angusta desolazione che si sente più vicino. Una desolazione che in Europa nessuno scrittore ha interesse a dissimulare. Che rifugge da trionfalismi e rinuncia a qualsiasi ammiccamento seduttivo e di ricerca di charme. Ecco il punto cruciale, dice Piperno dove trovare la differenza tra l’ebreo americano e l’ebreo europeo. “Il primo, gonfio della propria potenza, il secondo, ricurvo su se stesso. Il primo che avverte un legame vivo con un continente così generoso, il secondo pieno di diffidenza nei confronti del proprio. Le opere di grandi scrittori europei di origine ebraica come Arthur Koestler, Schwartz-Bart, Albert Cohen emanano un alone di ineluttabile disfatta. Sono angosciate e angoscianti. Al contrario non c’è avversità che i protagonisti ebrei dei grandi romanzi americani non affrontino con piglio risoluto, dinamico, vitalista. Un altro miracolo americano: aver trasformato gli ebrei in persone sicure di sé. Così perfino lo squallore dei sobborghi di Chicago nelle mani di Bellow diviene epico; laddove quello esibito dalla Manchester di Jacobson è solo squallido. Ebreo europeo che sacrifica l’epica sull’altare della tragedia che lo pervade”.