di Cyril Aslanov
[Ebraica. Letteratura come vita] Gli ultimi due anni ci hanno fatto capire che i social media sono capaci di trasformare convinzioni politiche molto parziali e tendenziose – e comunque estremiste -, in assiomi presumibilmente inconfutabili. Nella Critica della ragione dialettica, Jean-Paul Sartre descriveva l’alienazione di interi gruppi a questo tipo di opinione con il termine di serializzazione, cioè la diffusione in scala industriale di pregiudizi in ceti sempre più ampi della società. La nostra epoca ha fatto passare questi processi di contaminazione delle opinioni pubbliche ad una velocità interstellare. Ormai il concetto di serializzazione viene sostituito da quello della viralità (termine creato dai pubblicisti).
La metafora medica riflette ovviamente le ossessioni della nostra epoca e i ricordi macabri del Covid. Tuttavia il nuovo virus non è più un morbo fisico, bensì una pandemia morale e cognitiva che impatta sul pensiero e non più sulla salute corporea. Nel suo saggio Autoemancipation pubblicato nel 1882, il medico Leo Pinsker aveva già paragonato l’antisemitismo ad una malattia sociale. La globalizzazione dell’antisemitismo, causa e conseguenza dell’antisionismo ossessivo espresso dai critici dell’umanesimo occidentale, conferma la validità della metafora nosologica di Pinsker.
L’idea secondo la quale la diffusione di pregiudizi letali assomiglia ad una contaminazione di tipo epidemico (ormai pandemico) ha generato due opere significative della modernità novecentesca: Il mal bianco, dello scrittore ceco Karel Čapek (1890-1938) (nella foto in alto) e la tragicommedia Rinoceronte, del drammaturgo franco-romeno Eugène Ionesco (1909-1994).
Il mal bianco, pubblicato nel 1937 nell’originale ceco e nel 2021 nella traduzione italiana, è un’opera di fantascienza distopica che racconta lo sviluppo parallelo di un morbo (una forma di lebbra mortale), e di un regime politico espansionista che fa pensare al nazismo negli anni che hanno preceduto la Seconda guerra mondiale quando Hitler preparava l’annessione dell’Austria e della Boemia-Moravia che avvennero pochi mesi dopo la pubblicazione del romanzo (rispettivamente nel marzo 1938 e nel marzo 1939).
Il comparante morbico (la lebbra) e il comparato politico (la dittatura) che Čapek mantiene separati come due forze malefiche che si alimentano a vicenda, sono invece riuniti in una sola metafora in un’altra opera: Rinoceronte (1959), di Eugène Ionesco. Lungo i tre atti di questa commedia emblematica del teatro dell’assurdo, gli abitanti di una piccola città francese vengono contaminati da un morbo epidemico chiamato rinocerontite. Quindi si trasformano progressivamente in rinoceronti violenti e brutali all’eccezione di Béranger, un uomo inizialmente presentato come un banale anti-eroe che poi diventa «un giusto a Sodoma», l’unico rappresentante del bene e della giustizia in un posto ormai popolato da belve barrenti.
Nel caso di Rinoceronte l’identificazione del comparato è meno univoca che nel Mal bianco di Čapek. A prima vista si può riconoscere un riferimento alla diffusione del nazismo negli ultimi anni della Repubblica di Weimar. Ciò che potrebbe corroborare questa pista di lettura è il fatto che, pur scritta in francese, l’opera è stata sceneggiata la prima volta in tedesco e in Germania come per educare i tedeschi dell’immediato dopoguerra a non ripetere gli errori fatali di un passato recente. Tuttavia ricerche più approfondite sulla genesi del dramma e sulla vita di Ionesco hanno rivelato che la propagazione della rinoncerontite prende ispirazione dall’atmosfera tossica che regnava in Romania negli anni Trenta. In quegli anni una proporzione sempre più grande di intellettuali rumeni si affiliarono alla Legione dell’arcangelo Michele creata dall’ultrafascista Corneliu Zelea Codreanu.
Fra i contaminati da questa psicosi collettiva figurano rumeni illustri come Emil Cioran e Mircea Eliade, entrambi amici di Ionesco (nello stesso modo in cui Jean Dudard, l’amico del giusto Béranger, diviene rinoceronte alla fine del secondo atto). Ionesco non condivideva le idee fasciste del suo ambiente intellettuale rumeno. A preservarlo da questa deriva fu probabilmente il fatto che sua madre Marie-Thérèse Ipcar gli aveva trasmesso valori diversi da quelli di suo padre legionarista. Infatti, Marie-Thérèse non apparteneva a quel mondo di rinoceronti-legionaristi. Era una donna francese che veniva da una famiglia ebraica convertita al luteranismo e che rappresentava un polo positivo nella biografia personale di Ionesco.
La forza di Rinoceronte oggi come ieri può servire da paragone per ogni tipo di esplosione virale di un morbo politico-ideologico. Infatti, la commedia venne tradotta in tantissime lingue, fra le quali l’ebraico. Dopo la rappresentazione di Rinoceronte (Qarnapim) in ebraico a Haifa nel 1962, il critico teatrale Asher Nahor creò il neologismo ebraico hitqarnefut, cioè il fatto di trasformarsi in rinoceronte (qarnaf in ebraico).
Nella polemica politica che segnò Israele dopo la vittoria del 1967, la sinistra israeliana criticò l’euforia trionfalista che si era impadronita del mainstream del paese e a maggior ragione dei partiti di destra. Uno dei critici di sinistra che contestò quella atmosfera ideologica fu Amos Oz. E usò il verbo lehitqarnef per riferirsi proprio a quella esaltazione nazionalista. Il valore di un’opera letteraria si misura dal fatto che è suscettibile di una lettura rinnovata in altri contesti di ricezione. Quindi sia Il mal bianco di Čapek che Rinoceronte di Ionesco potrebbero servire da ammonimento contro l’assurda propagazione di un odio antisemita grossolano appena dissimulato dal fallace pretesto dell’antisionismo e della protesta Pro-pal.



