Anna Linda Callow, studiosa di ebraico

GECE 2019: il sogno di far rivivere l’ebraico, nel progetto di Ben Yehuda. Parla Anna Linda Callow

di Michael Soncin
“Questo suo amore nasce da una storia molto bella. All’età di sei anni s’innamora pazzamente di un amico di suo padre. Poco dopo sapendo che ha divorziato, gli chiede di sposarlo, il quale per ovvie ragioni declinerà l’invito. Era un israeliano e fu da quel momento che iniziò ad amare la cultura e la lingua ebraica». Queste le parole del giornalista di Stefano Jesurum, che ha introdotto, nell’ambito della Giornata Europea della Cultura ebraica 2019, l’intervento intitolato Il sogno nella parola dell’ebraista Anna Linda Callow, docente di lingua e letteratura ebraica presso l’Università degli Studi di Milano, scrittrice – è autrice del libro La lingua che visse due volte, edito da Garzanti e traduttrice di numerose testi dall’ebraico, dallo yiddish e dall’aramaico.

Astrazioni che diventano materiche realtà e uniscono

«Era un uomo che sognava forte e lasciava le tracce, – afferma la Callow, riferendosi a Eliezer Ben Yehuda, noto per aver fatto rinascere una seconda volta l’ebraico in chiave moderna -. La sua figura è diventata un simbolo, facendo qualcosa di estremamente collettivo, a partire da se stesso. Un esperimento ben riuscito, poiché tanti avevano sognato la rinascita della lingua ebraica e di farla diventare una lingua laica, parlata e non solo sacra».

«Mentre sulla questione politica – spiega l’ebraista – ci sono grandi contestazioni all’interno del mondo ebraico anche su come si debba declinare il sogno politico del ritorno a Sion, una parte deiHaredim si è chiamata fuori dal sogno antisionista, pur vivendo in Israele, invece il sogno della lingua è qualcosa che mette d’accordo tutti. Perché è utilizzata nel commercio quotidiano nella vita in Israele e mette d’accordo tutti gli intellettuali. C’è un amore da parte di tutti coloro che scrivono in ebraico, un senso di magia, di sogno realizzato che si sta ancora vivendo”.

Come si passa – chiede Jesurum – dall’amore per l’ebraico a quello per lo Yiddish? 

«Io funziono per amori, come per quello amicale, ho comprato una grammatica della lingua yiddish, perché consigliata da una cara amica, e la combinazione tra il suggerimento dell’amica e l’autore del libro è stata esplosiva. Sono stata trascinata, studiandolo da sola, perché in Italia non c’erano dei corsi appositi e non avevo modo in quel periodo di andare all’estero, ed è così sono finita a fare la traduttrice dello Yiddish». 

Il fascino delle lingue ebraiche 

La cosa stupefacente – sottolinea Jesurum – di Anna è che lei non è ebrea, questo in qualche modo è complicato da dire ma non è banale. Le aule dove insegni sono piene di giovani non ebrei che vengono a studiare l’ebraico. Perché?

«Con la creazione dello Stato d’Israele e l’ebraico – risponde la docente – che ne è diventato la lingua ufficiale, ne ha portato il prestigio, a una cultura che era ingiustamente disprezzata; c’è un libro di Donatella Di Cesare in cui fa una carrellata di tutte le sciocchezze che i più grandi filosofi occidentali hanno detto sull’ebraismo, qualcosa di veramente imperdonabile per un filosofo che è un amante del sapere. Questi non sapevano l’ebraico e parlavano dell’ebraismo senza saperne nulla. C’è un prestigio storico legato ancora oggi nonostante le controversie che ci sono, le discussioni accesissime e gli odi. 

La Torà, sogno di una legge giusta

«Si può pensare che la Toràsia il sogno di una legge giusta, il sogno di una ricerca di giustizia. Nella Torah c’è una scelta di norme, quelle rituali, i precetti morali; è un laboratorio di discussione sulla legge giusta. È un pensiero che travaglia Sofocle nell’Antigone e arriva fino ai nostri giorni, quando si discute com’è possibile che ci siano state certe leggi che siano state difese e promulgate e di come la gente abbia obbedito. Il sogno non è espresso attraverso la narrazione dei sogni, nella Torah è quello di una legge giusta, problema che affligge le società occidentali e il mondo ebraico. Le narrazioni sono importanti perché la ricerca della giustizia non è cosa da poco». 

I traduttori devono essere audaci

 «I traduttori devono essere audaci – risponde Anna Linda alla domanda di Jesurum su quali paure ha nel tradurre parole pesanti, citando un’opera recentemente da lei tradotta di La moglie del Rabbino di Chaim Grade) – altrimenti non finiscono più di lavorare e la gente non può leggere i libri. Bisogna andare in avanti, cercando di fare un compromesso tra la fedeltà all’autore e la fedeltà al lettore. Penso che s’impari molto facendola, c’è una sensibilità che si sviluppa. Poi dipende da che autore abbiamo davanti, ci sono autori che investono sul linguaggio più che sull’intreccio e lì dipende dalla natura di questo investimento».

«Tempo fa con  due amici traducemmo Sholom Aleichem – continua a spiegare -, solo che lui usa non usa lo yiddish come strumento per le sue descrizioni bellissime (come fa Chaim Grade ad esempio),  ma gioca con i registri della lingua yiddish, e quindi con l’elemento germanico che è quello preponderante, con l’elemento di tutti i prestiti ebraici che è quello prestigioso e con l’elemento slavo, che è quello della vita quotidiana, saltando da un registro all’altro e mettendoli a confronto all’interno delle frasi». 

Ma come si fa a far passare tutto ciò in italiano? «Un esempio è l’enorme capolavoro di Aleichem La storia di Tewje il Lattivendolo, libro di una bellezza straordinaria ma il cui grosso difetto, che forse potrebbe trasformarsi in un pregio, è che si dovrebbe leggere in originale. Il traduttore sa che non può rendere perfettamente le sfumature della lingua in italiano. Vi è una tripartizione dello yiddish, ed è troppo bello avere tre frecce al proprio arco in una lingua sola, e poter usare una o l’altra mettendo dentro il versetto biblico e l’espressione brutta della strada in polacco, russo, ucraino, facendo stare il tutto insieme con questo sottofondo di lingua germanica è una cosa che si può fare solo in yiddish». 

Come s’impara l’ebraico? «L’ebraico s’impara insegnandolo – spiega la Callow -: ciò vale per tutte le lingue, perché se la insegni, devi avere una consapevolezza molto maggiore, devi riflettere sulle difficoltà che hai avuto o stai avendo per poterla appianare a quella che insegni e quindi c’è questa riflessione di chi insegna che si guarda come studente. Sono una persona tremendamente avida di vita – conclude – vorrei moltissime vite anche per studiare moltissime lingue».