“Quella volta che ho festeggiato Pesach negli States”: il racconto di Carlotta

Giovani

di Carlotta Jarach

pesach-virginia 1Quest’anno mi trovo oltreoceano, e per celebrare dignitosamente Pesach (che qui però devi chiamare Passover, altrimenti non ti capiscono) ho deciso di fare un po’ di vita universitaria: sembra infatti che di ebrei, qui alla VirginiaTech, ce ne siano più di 2000. E sembra anche che il luogo in cui si ritrovano sia un bell’edificio, con un piccolo tempio, una mensa kasher e una sala ricreativa. Ed è stato facile convincermi a restare, quando sono entrata per la prima volta, a shabbat. Ed è stato ancora più facile poi farmi tornare, settimana dopo settimana.

Sebbene fossi preparata alla stravaganza a stelle e strisce, l’imprevedibile si è manifestato in tutta la sua americanità: pensavo di essere pronta, ma mai avrei pensato che, tra un kiddush recitato quasi interamente in inglese e un carpas OGM, venisse proiettato su di uno schermo gigante una versione ebraica di “Indovina Chi”, quale intrattenimento della serata.

I faccioni (scontati) dei vari Woody Allen e Ben Stiller illuminavano la grande sala e facevano compagnia a dei timidi ragazzi del primo anno e ad il loro altrettanto timido tentativo di cantare Ma Nishtana ai loro compagni più grandi.

Chi ha fame venga e mangi: e così tra i tavoli non solo ebrei, ma chiunque avesse in cuor suo il desiderio di apprendere cosa volesse dire, ogni anno, per noi, uscire dall’Egitto: una ritualità quella di Pesach che nulla a che fare con il ripetersi di una ciclicità vuota e priva di significato. Anzi.

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Msè (Adam) con Carlotta (a sinistra)

Per rovinare la mia reputazione anche nel Nuovo Mondo, mi sono offerta per cantare Vehi Sheamda, davanti a tanti genitori venuti da ogni parte del paese per fare il seder con i propri bambini. Il piccolo palco che avevano allestito era abbastanza largo perché oltre a me ci stessero gli organizzatori del centro Hillel. Tra cui, immancabile, un ragazzo di nome Adam travestito da Mosè. Mi avvicino, ovviamente mi cade la targhetta col nome che mi avevano dato all’inizio come nei più rispettabili meeting aziendali, e canto.

E, seppure questo seder sia stato tutto tranne che convenzionale, credo proprio che Pesach sia entrato nella mia vita anche quest’anno: l’esempio più alto di celebrazione del dialogo tra persone diverse, nel mio caso addirittura attraverso lingue diverse.

Pesach, ovvero conquistare e riconquistare la libertà. Libertà che non è certo quella che provo nel trovarmi a vivere da sola lontano da casa. E le parole Ricordati che sei stato anche tu straniero in terra d’Egitto suonano così forti ora, specie in un paese come gli Stati Uniti dove un candidato presidente vuole costruire muri e ha costruito la sua campagna sulla xenofobia. Ora, specie in Europa, dove rappresentanti di estrema destra anti migranti trionfano in Austria, e la paura innalza barriere e muri ovunque, Brennero in primis. Suonano forti ora, ovunque.

“E l’hatikva chi la canta?”

Adam-Mosè si guarda intorno. Incontra il mio sguardo e mi sorride. “Of course” rispondo, “ma dopo voglio una foto con te”. Salgo di nuovo sul palco e mi porgono il microfono.

“No” dico io “la cantiamo tutti insieme”.

@CarlottaJarach