di Paolo Salom
[Voci dal lontano Occidente] Nelle scorse settimane un comandante di Hamas, il capo di una brigata di Rafah, si è arreso ai soldati di Tsahal. Aveva preso parte all’orrendo attacco del 7 ottobre e poi aveva anche – con i suoi uomini si intende – sorvegliato alcuni ostaggi israeliani. Inizio da questo dato di cronaca per provare a districarmi nella complessità di un conflitto che non si limita alle parti direttamente in causa, Israele e i terroristi di Hamas. Ma è sin dall’inizio tracimato nel lontano Occidente (e non solo) trasformando la realtà degli ebrei della Diaspora in un’esperienza molto vicina a quella sperimentata nella prima metà del secolo scorso e, talvolta, anche in seguito (per esempio durante la prima guerra del Libano, a partire dal 1982).
Come sappiamo, essere ebrei nel lontano Occidente, oggi, è molto scomodo. Mostrare esternamente la propria appartenenza religiosa, magari perché si porta la kippà o un Magen David fuori dalla camicia, può innescare episodi spiacevoli, se non addirittura aggressioni fisiche. A Napoli, altro dato di cronaca, una famiglia israeliana è stata cacciata da una taverna quando la proprietaria ha identificato la loro nazionalità e il loro essere “sionisti”.
Ora, di chi è la colpa di tutto questo? Ammesso che abbia un senso attribuire una responsabilità a un fenomeno bimillenario, credo che sia opportuno provare a chiarire alcuni aspetti di questa situazione che genera non poca angoscia in tutti noi. Dico questo perché, anche dal nostro interno, c’è chi attribuisce precisi oneri, accusando il premier Netanyahu e il governo di Israele di aver gettato benzina sul fuoco dell’antisemitismo. Sono state usate parole molto dure a questo proposito. Termini che non voglio riportare qui perché non desidero approfondire le divisioni, piuttosto vorrei, con umiltà, provare a dare qualche risposta capace di riportare un briciolo di serenità.
Sapete che non parlo di politica israeliana in questa rubrica: non perché non abbia le mie considerazioni, ma perché ritengo che solo chi vive (e vota) in Israele abbia diritto a dire pubblicamente la sua. Ma in una vicenda come questa è bene spiegarsi con sincerità: Netanyahu (e i suoi ministri) non ha alcuna responsabilità nel risorgere dell’odio anti ebraico. Al contrario, i suoi (e i nostri) nemici usano questo antico fenomeno come arma per fare del male a Israele (e quindi agli ebrei tutti).
Perché dico questo? Perché la propaganda di parte araba, e iraniana, è scattata con un tempismo perfetto all’indomani del 7 ottobre, inondando le piazze e le università con slogan e aggressioni non solo verbali che avevano l’unico scopo di gettare nel panico, e dividere, l’opinione pubblica ebraica considerata, nella mente dei nostri avversari, potente e importante quanto Tsahal. Soltanto quando è cambiato l’inquilino alla Casa Bianca la marea di follia ha rallentato, almeno negli Stati Uniti. Qui da noi i volonterosi sostenitori della causa di Hamas non si sono fermati, anzi, come dimostrano gli episodi citati prima e l’atmosfera che si respira sui social online e nelle università e nelle scuole.
Dire “è tutta colpa di Netanyahu” aiuta senz’altro a prendere le distanze. Ma non serve a capire quello che sta accadendo e, soprattutto, fa il gioco dei nostri nemici. Che puntano esattamente a questo: creare un solco tra gli ebrei della Diaspora e Israele nella speranza che, anno dopo anno, uno Stato ebraico sempre più solo finalmente collassi per fare posto a una “Palestina” araba e musulmana. Essere costretti a mandare i propri figli in guerra non è cosa facile. È una tragedia, anzi. E nessuno più degli israeliani vorrebbe evitarlo. Ma ci sono momenti nell’esistenza di una nazione in cui questo non è possibile (e non capita soltanto a Israele: vedi la povera Ucraina).
Dopo il 7 ottobre, una vittoria a metà non serve a nulla: abbiamo capito che dall’altra parte della frontiera le priorità sono altre. Inutile illudersi, il processo di pace non esiste più: e non per causa di Netanyahu e di qualunque altro politico israeliano. Non esiste più perché gli arabi che si dicono palestinesi non hanno (per ora) alcuna intenzione di vivere accanto a Israele ma vogliono prenderne il posto. Non sono io a dirlo: lo dicono loro. Dunque, tornando all’esempio iniziale: la guerra è dura, devastante e anche ingiusta. Ma può produrre risultati. Ora, quando questa rubrica sarà stampata, forse altri comandanti di Hamas, vista la determinazione del loro nemico, si saranno arresi. Forse alcuni degli ostaggi saranno stati liberati. Forse. O forse ci vorrà più tempo. Ma se crediamo al diritto di noi ebrei di gestire il nostro destino come nazione tornata sovrana, dopo duemila anni, dobbiamo anche accettarne le difficoltà, talvolta le tragedie, che questo diritto porta con sé. In un mondo ideale tutto ciò non sarebbe necessario. Ma noi viviamo in un mondo dove l’odio è reale, i popoli continuano a farsi la guerra e a noi tocca difendere quel che con tanti sacrifici abbiamo riconquistato. Rimaniamo uniti, ognuno per quel che sa e può: non cediamo alla paura.