Raffaele Genah: per l’informazione su Israele, dopo il 7 ottobre è cambiato tutto. E non in meglio

di Nathan Greppi

Raffaele Genah, già vicedirettore del Tg1 e capo della sede Rai di Gerusalemme, oggi scrive come editorialista sul quotidiano romano Il Messaggero. Ha spiegato a Bet Magazine come è mutata nel tempo la rappresentazione d’Israele sui media.

 

Com’era lo stato dell’informazione su Israele prima del 7 ottobre?
In tutto il mondo occidentale la stampa rappresenta e dà voce alle varie sensibilità, comprese quelle politiche. La questione mediorientale è da sempre un tema divisivo, anche se negli ultimi anni l’immagine di Israele sulla stampa internazionale era molto cambiata: non più, o non solo, un paese bellicista sempre sull’orlo di una guerra, anche se nella migliore delle versioni in chiave difensiva.

Il tempo ha corretto questa rappresentazione. Israele è stato sempre più considerato un paese ad alta vocazione tecnologica, la start-up nation, che era riuscito anche a diventare un modello nella lotta al Covid. Un’economia in crescita, nonostante le turbolenze che attraversavano gli Stati Uniti e l’Europa; il paese giovane, delle nuove tendenze; un paese libertario, accogliente verso ogni forma di diversità; un paese che aveva vissuto un boom turistico senza precedenti, anche grazie alla moltiplicazione dei voli low cost.
Ma accanto a tutto questo non sono mai mancate le attenzioni e le critiche sulla questione palestinese: la pace sempre più difficile, gli scontri nella Città Vecchia e in Cisgiordania, le provocazioni e l’intolleranza, dalla fiammata nel maggio del 2021 innescata dalla vicenda di Sheikh Jarrah fino, in epoca più recente, alle proteste contro il premier Netanyahu e la riforma sulla giustizia da lui proposta.

Cosa è cambiato dopo il 7 ottobre?
È cambiato tutto, e anche molto in fretta. L’emozione e l’orrore per i massacri sono sbiaditi nel giro di pochi giorni, in qualche caso addirittura di poche ore. Prima solo timidi distinguo per ricordare le colpe della parte israeliana nell’aver delegittimato il governo di Ramallah, poi la questione degli insediamenti e le violenze dei coloni.
Quando l’onda delle manifestazioni propal nelle principali città europee ha cominciato a crescere e a dilagare, e di contro iniziavano i bombardamenti su Gaza, il tema dei massacri da cui tutto era iniziato e quello degli ostaggi sono stati sempre meno presenti. Si è parlato poco anche dei festeggiamenti nelle capitali arabe per il sangue di bambini, donne e anziani versato quel tragico sabato.
Poi si sono raggiunte vette difficili da immaginare; innanzitutto, sul tema delle violenze subite dalle donne israeliane, tema passato in secondo piano perfino in occasione dell’8 marzo, nonostante le numerose e documentate denunce e l’appello della moglie del Presidente Herzog. Ma anche difronte a singoli, dolorosi episodi, la cui responsabilità è stata frettolosamente attribuita all’esercito israeliano, come l’attacco di ottobre all’ospedale Al-Ahli di Gaza.
Nel caso dell’ospedale, si è passati disinvoltamente da un bilancio iniziale di 500 morti a quello, più credibile anche se ugualmente grave, di 50 morti. Mentre le colpe della strage venivano attribuite soltanto quattro ore più tardi da un’inchiesta dell’IDF ad un razzo malfunzionante sparato della Jihad Islamica. Non mi sembra che la nuova versione abbia trovato uguale sdegno e altrettanto spazio sulla stampa mondiale, sempre pudica nel correggere i propri errori.

Come ha scelto di raccontare la guerra in corso per Il Messaggero?
Nell’unico modo in cui sono capace, e che è stata la mia bussola in oltre 40 anni di professione. L’informazione non dovrebbe mai essere di parte, a maggior ragione quando si affrontano questioni che toccano le nostre sensibilità. Ma l’informazione deve essere anche la più completa e credibile possibile.
Certamente è molto più faticoso, a volte quasi impossibile, rendere la complessità di una situazione che si trascina da decenni. Molto più semplice tirare una linea e dividere il mondo in buoni e cattivi, ma seguendo questo schema binario si finisce inevitabilmente col fare un racconto di parte che certamente non aiuta a conoscere e capire. Le notizie vanno date sempre e tutte, dopo averle verificate, per quanto possibile. E dove non è possibile, allora quanto meno scegliere le fonti più affidabili e citarne la provenienza.
Proprio questo conflitto ha messo a nudo il ruolo ambiguo di sedicenti giornalisti e fotografi, alcuni dei quali hanno svolto un ruolo attivo nell’organizzazione di Hamas e addirittura nel pogrom del 7 ottobre. E se devo dirla tutta, mi sarebbe piaciuto se a smascherarli fossero state le inchieste dei loro stessi colleghi, prima ancora che lo facesse l’organizzazione israeliana HonestReporting.

Con l’antisemitismo in aumento nel mondo, come prevede che si evolverà la situazione?
Purtroppo l’odio, il pregiudizio, l’antisemitismo come è stato detto molte volte sono un fiume carsico, che puntualmente riaffiora nei momenti critici. Per il futuro vorrei poter sperare in una soluzione che assicuri pace, sicurezza e sviluppo all’intera regione. Il passato ci insegna che gli uomini di buona volontà ci sono riusciti, e gli accordi con l’Egitto e la Giordania ne sono la migliore testimonianza.
Per questo mi auguro che riparta al più presto il percorso intrapreso con gli Accordi di Abramo, che aveva aperto il dialogo con diversi Stati un tempo estremamente ostili a Israele. I paesi arabi hanno troppo spesso assunto posizioni incendiarie, ma possono e devono avere un ruolo nel processo di pace, riconoscendo anzitutto il diritto all’esistenza dello Stato Ebraico. Ma questo è esattamente ciò che gran parte di quel mondo allineato sulle posizioni degli ayatollah iraniani non vuole assolutamente.
La propaganda, l’odio tramandato da generazioni, instillato nei sermoni e nei libri scolastici, ci fanno capire purtroppo che la strada è ancora molto lunga e accidentata.