Ludmila la pasionaria, e l’arte di essere ebrei in Russia

di Fiona Diwan

Ludmila Ulitskaya

È minuta e delicata, ha una ritrosia d’altri tempi e tratti gentili, difficili da incontrare nei modi della Russia un po’ gaglioffa di adesso. Questa esile gentildonna dalla tempra d’acciaio, quasi priva di civetteria e dalla femminilità austera, niente trucco, capelli corti e lasciati serenamente ingrigire, è Ludmila Ulitskaya: che non dissimula affatto i suoi 69 anni e sorride mentre dichiara di sentirsi un «compendio vivente di storia russa. Sì, ho attraversato l’epoca dei Soviet e di Stalin, la stagnazione breznieviana, la Perestrojka di Eltsin e oggi, il neo-cesarismo dell’età di Putin: quattro epoche che si sono succedute in poco più di mezzo secolo, scardinando ogni volta la storia e la società russa. E cambiando, in particolare, la vita degli ebrei», dichiara. Oggi Ulitskaya è tra i più importanti scrittori russi, forse l’autrice più letta e amata, scrittrice di best-seller che hanno venduto milioni di copie in patria, 15 romanzi tradotti in tutte le lingue: dal pluripremiato Daniel Stein, traduttore (Bompiani) a Le bugie delle donne e a Funeral Party (Frassinelli), da Sonecka (E/O) a Medea (Einaudi), da Il dono del dottor Kukockij a Sinceramente vostro, Surik (Frassinelli). Pubblicata per la prima volta da Gallimard, in Francia, che ne fa un caso mondiale, Ulitskaya è una scrittirice tardiva, il primo libro scritto a 50 anni.

Laureata in genetica all’Università Lomonosov di Mosca, autentica eroina dell’epoca avventurosa e soffocante dei samizdat, quando la Russia veniva catapultata a un’era precedente a Gutenberg (per leggere i libri proibiti e messi all’indice -circa il tre per cento- bisognava trasformarsi in amanuensi, ricopiarli a macchina su carta velina e farli girare di mano in mano): un esercizio sovversivo questo, passibile di reclusione, e che a lei costò il lavoro.

Licenziata in tronco, dopo qualche anno a Ulitskaya viene offerta la direzione artistica del Teatro Ebraico di Mosca, «ma io non sapevo nulla né di teatro, né di ebraismo, né tantomeno di lingua yiddish e ebraica», spiega sorridendo. Così si mette a studiare: l’ebraico e i testi sacri, la letteratura e la storia ebraica. Nel mentre, tocca con mano quello che lei chiamerà il “punto zero”, una crisi esistenziale totale da cui ripartire, morte e rinascita, un terremoto dell’identità e la costruzione di un Io più consapevole e slanciato (“ero divorziata dal mio secondo marito, senza lavoro e con due figli a carico. A Mosca non c’era nulla da mangiare, siamo alla fine degli anni Ottanta”). Un’infanzia segnata dal periodo staliniano (è nata nel 1943), due nonni internati nei gulag, madre e padre di conclamata origine ebraica: «fu un periodo difficilissimo. Stalin lanciò in quegli anni una tra le più feroci campagne antisemite del suo tempo, incolpando i medici ebrei e considerandoli “untori” e “avvelenatori”. Mia madre, un medico, venne licenziata e io facevo a pugni per strada con i ragazzi. Imparai a combattere. La nostra vita era crudele, violenta, sporca». Diversa da quella dei nonni: «Ricordo mio nonno, sempre con i volumi della Torà in mano, fino a 93 anni. Era un saggio, con un cuore immenso, forse uno dei 36 Giusti; anche mia nonna, un’ebrea emancipata, esprimeva una grande statura etica, capace di un ascolto morale al di sopra della norma. L’altro nonno invece finì al gulag perché aveva contatti con il comitato antifascista ebraico ed era amico di Solomon Michoiils, un attore carismatico, capo del Teatro ebraico che venne assassinato per strada». Un’eredità raccolta oggi da  Ludmila. Impegnata in un rischioso carteggio con l’oligarca Michail Khodorkovsky, nemico pubblico numero uno nonché tra i più grandi antagonisti di Putin -ex magnate alla guida del colosso petrolifero Yukos, è in carcere dal 2003 con il pretesto di una presunta ma mai comprovata frode fiscale, ed è diventato il simbolo della lotta per la libertà in Russia-, l’intrepida Ludmila è riuscita oggi a far pubblicare l’epistolario, un libro capace di incidere sulla vita politica russa più di mille comizi sulla Piazza Rossa. Ecco l’intervista a questa grande maestra del romanzo psicologico contemporaneo, una delle voci più vibranti e seguite in patria.

Come sono cambiate la vita e la sensibilità, nella Russia di oggi?

Tantissimo. Ci sono stati periodi anche recenti, ad esempio la Perestrojka, in cui si faceva letteralmente la fame e trovare anche solo un cavolo o una verza era un miracolo. Negli anni Novanta, dopo la caduta del muro di Berlino, scoppiò una deregulation totale. Personalmente, ho assistito al crollo del mondo di Stalin e delle ideologie, al crepuscolo del socialismo e dopo il Duemila ho conosciuto una Russia ancora diversa, con le frontiere finalmente aperte, la vittoria dei social-network che hanno aperto la testa ai russi e stanno cambiando radicalmente la società.

Quindi le piace la Russia di oggi.

Non esattamente. Vivere adesso in Russia è una scelta che si rinnova ogni giorno perché in verità oggi siamo liberi, ovvero potremmo decidere di partire in ogni momento, qualora lo desiderassimo, e senza divieti -molti lo hanno fatto-. Non mi piace questo governo, Mosca non mi piace; tuttavia vivo immersa in una cultura ricchissima, dinamica, stimolante più che mai e se me ne andassi questo mi mancherebbe.

È mai stata in Israele?

Tantissime volte, adoro andarci, mi tocca profondamente. Capisco quanto sia tormentoso viverci e quanto sia difficile trovare una soluzione. Tutto si mescola, inestricabilmente, le memorie, la storia, le tombe, quella di Abramo, Sara, Agar… Molti dei problemi di oggi hanno radici nel passato lontano, nel deficit di amore e nella cacciata di Agar e Ismael da parte di Sara. Se lei li avesse accolti e accettati, se i due fratelli avessero vissuto insieme, la storia sarebbe andata diversamente.

Nella Russia di Putin essere ebrei è ancora un problema?

Posso dire di aver conosciuto tutte le sfumature dell’antisemitismo russo e della difficoltà di essere ebrei in Russia. Quel vivere circospetto, quel nascondersi pieno di prudenza che era la sostanza dei nostri giorni. Era un ebraismo forte e consapevole ma che non ha mai potuto nutrirsi del patrimono ebraico perché l’esercizio della fede e qualsiasi forma di religiosità e osservanza erano vietate. Alla morte di Stalin si registrò un picco spaventoso di antisemitismo: ricordo tutto, eravamo nel 1953 e io avevo 10 anni. Venne scatenata una campagna di odio contro i medici ebrei, accusati di complotto contro lo Stato e di cosmopolitismo (un’accusa quest’ultima ingiuriosa, all’epoca un valore negativo e antipatriottico, cosmopolita voleva dire essere un nemico dello Stato e tradire gli ideali nazionalisti)… Mia madre era per l’appunto un medico e eravamo in prima linea nella guerra scatenata da Stalin contro gli ebrei, il solito capro espiatorio di tutti i mali… Il razzismo in Russia è molto radicato, esiste da sempre ed è violentissimo: ieri è toccato agli ebrei, oggi ai caucasici, ai ceceni, ai georgiani, agli azeri e, a turno ai neri, ai cinesi… Per un occidentale è difficile capire quanto la Russia sia stata lontana dalla concezione democratica. Difficile capire quanto qui da noi il potere centrale abbia sempre avuto la facoltà di manipolare l’odio popolare e aizzare le masse verso questo o quel bersaglio, idolo polemico che cambia di volta in volta. In Russia la xenofobia è molto redditizia, è qualcosa di plasmabile, si può addirittura creare dal nulla, come accadde all’epoca dei Soviet con l’odio verso i commercianti o i kulaki… L’odio per il diverso, l’eterofobia è un fenomeno che troviamo un po’ dappertutto, in tutti i paesi, ma in Russia l’idea è sempre stata che si potessero manipolare i rapporti tra un popolo e un altro, costruendoli a tavolino, deportando da un luogo all’altro intere popolazioni. Un atteggiamento tipico dei politici russi: creare l’odio di Stato. Che oggi si indirizza verso i caucasici e georgiani e, di nuovo, verso gli americani. Perché? Ma cara, i georgiani sono dei traditori, dicono i russi, hanno fatto la Rivoluzione arancione, hanno tagliato il cordone ombelicale con la Russia e lo hanno fatto in modo conflittuale. Inoltre sono il simbolo del crollo dell’impero russo, della grandeur di Mosca. Per questo sono odiati. È oggi è in atto una vera caccia al caucasico: perché sono la prova tangibile di una gloria e di un primato perduti. Senza contare che assistiamo a una saldatura nuova e curiosa: quella che sta avvenendo tra la rinata Chiesa ortodossa e Putin, a cui si aggiunge il mito di Stalin, oggi in grande spolvero, Stalin il liberatore d’Europa, che ha affrancato il mondo dal nazismo e da Hitler piegando i tedeschi. Insomma, sento puzza di Grande Russia. E quando questo avviene bisogna stare attenti, la fabbricazione di un nemico da colpire è dietro l’angolo. Tuttavia, al livello dell’uomo della strada, se esiste un pericolo antisemita, viene dagli ambienti panslavisti e fascistoidi, che rivendicano un ritorno alle divinità pagane, pre-cristiane dell’antica Russia.

Caso Khodorkovsky: vi è anche una componente antisemita?

Khodorkovsky non ha a che fare con l’atavico antisemitismo di Stato. Anche perché Putin è un pragmatico: lui perseguita solo chi disobbedisce, chi non si allinea, appunto come Khodorkovsky e gli altri 200 giornalisti uccisi durante l’era di Putin. Tuttavia, io preferisco l’aggressività razionale di Putin che la ferocia irrazionale di Stalin. Non dico che vivere in questa Russia sia una passeggiata di salute, ma certamente chi ha vissuto nei decenni passati sa quanto straordinario sia il tempo presente.