di Davide Cucciati (testo e foto)
Il racconto del mio secondo viaggio a Sderot dal 7 ottobre. Qui si combatteva casa per casa. Ora si incrociano i soliti bunker: tanti, ovunque. Ma rispetto al passato, noto qualcosa di nuovo. Alcuni sono stati trasformati, resi belli e decorati con disegni, con colori vivaci, con raffigurazioni di tramonti, di animali, persino di cani sorridenti. Probabilmente Sderot non vuole vivere nei bunker ma con i bunker.
Martedì 27 maggio 2025 mi sono recato a Sderot. Questa cittadina israeliana dista circa un chilometro dalla Striscia di Gaza. Nonostante ciò, o forse proprio per questo, ha una sua sorprendente compostezza. È una città vera: conta circa 30.000 abitanti e fin dall’ingresso si percepisce la volontà di guardare al futuro senza limitarsi a sopravvivere al tempo presente: ci sono marciapiedi puliti, aiuole curate e strade ben segnalate.
È stato il mio quarto viaggio a Sderot, il secondo dopo l’attacco del 7 ottobre 2023. L’anno scorso ero venuto a pochi mesi dalla tragedia. Ora torno a un anno di distanza per vedere con i miei occhi cosa è cambiato. Pochi giorni prima, parlando con due soldati appena usciti dalla Striscia di Gaza, avevo ricevuto un’anticipazione chiara: il nord della Striscia resta l’area più “calda”, con scontri più intensi rispetto al sud. Sono arrivato al punto dove un tempo sorgeva la stazione di polizia, uno dei luoghi chiave della battaglia di Sderot. Qui si combatteva casa per casa. Ora si incrociano i soliti bunker: tanti, ovunque. Ma rispetto al passato, noto qualcosa di nuovo. Alcuni sono stati trasformati, resi belli e decorati con disegni, con colori vivaci, con raffigurazioni di tramonti, di animali, persino di cani sorridenti. Probabilmente Sderot non vuole vivere nei bunker ma con i bunker.
La stazione di polizia, invece, non c’è più.
Alle 6:48 del 7 ottobre, ventisei terroristi armati fecero irruzione in città con l’obiettivo di prenderne il controllo e, soprattutto, di conquistare quel presidio: la stazione di polizia di Sderot. Era il cuore della sicurezza locale, simbolo dell’autorità israeliana in una zona contesa. Gli agenti lanciarono via radio un disperato “Siamo sotto attacco!”, mentre l’edificio si trasformava in un campo di battaglia. In risposta, si mobilitarono in massa: poliziotti del distretto sud, unità Yamam, agenti della polizia di frontiera, squadre locali di intervento rapido, soldati, studenti delle yeshivot Hesder e anche semplici cittadini. Combatterono per ore, circondarono la stazione, cercarono di impedire ai terroristi di uscirne e continuare il massacro. Gli agenti all’interno resistettero fino allo stremo, sparando anche dal tetto. Quando le unità d’élite riuscirono finalmente a entrare, evacuarono i superstiti sotto il fuoco nemico. Ma la battaglia si concluse solo dopo 26 ore, con la decisione del comando di demolire l’edificio, utilizzando bombardamenti, artiglieria e macchinari pesanti. Quel giorno, dozzine di agenti e combattenti israeliani persero la vita, evitando che la città intera cadesse.
La battaglia della stazione di polizia è oggi un simbolo di coraggio e sacrificio, inciso nella memoria collettiva di Sderot. Infatti, un anno fa, nello stesso punto, c’erano solo rovine. Oggi, al loro posto, c’è il Memorial and Heroes Park. Un giardino curato, silenzioso. Al centro del parco, si ergono alte colonne di pietra. Su alcune, incisi in ebraico e in inglese, compaiono passi di Torah e versi poetici.
Una targa sintetizza il senso del luogo: “In memory of the residents and defenders of the city of Sderot who fell in the Swords of Iron War.”
Proprio accanto alle colonne del Memorial, un angolo più raccolto racconta altre storie. Sono targhe in metallo, appese su una parete costruita con le pietre originali della vecchia stazione di polizia. Su ogni targa, un volto inciso, un nome, un’età, una provenienza. È un modo semplice, diretto, per ricordare. Michel Nisenbaum era arrivato in Israele dal Brasile a tredici anni. Il 7 ottobre è stato ucciso mentre cercava di raggiungere la nipote per salvarla. Il suo corpo fu portato a Gaza dai terroristi e restituito soltanto nel maggio 2024. Meir Malka era nato in Marocco. Aveva costruito edifici in Israele e in Africa. È stato assassinato nella sua stanza di sicurezza da uomini armati entrati in casa lasciando una moglie e tre figli. Leonid Lozovski, nato in Ucraina, era arrivato in Israele nel 1990. Ex militare dell’aviazione, lavorava nella sicurezza. Appassionato di ciclismo e fotografia, fu ucciso sulla strada per andare al lavoro. Aveva tre figli. Zianida Beylin era nata in Uzbekistan, laureata in ingegneria civile. Lavorava come contabile. È stata ammazzata dai terroristi palestinesi. Ci sono molte altre storie singole di israeliani provenienti dai posti più remoti: ad esempio, Semyon Avdalimov dal Dagestan, ucciso l’8 ottobre da terroristi rimasti in città, Martin Kuzmickas dalla Lituania, ucciso combattendo nei ranghi della special Police National Enforcement Unit, e Shmuel Smachaw Goolima dall’Etiopia, poliziotto. Sderot si conferma terra di confine e di nuove vite.

Poco dopo l’ingresso in città, ho contattato David Farer, già intervistato per Bet Magazine-Mosaico un anno fa. Abita da sempre a Sderot ma la sua storia parte da lontano: è nato negli Stati Uniti, da una famiglia ebraica di origine ucraina. Gli chiedo com’è trascorso quest’anno. La risposta è secca: “A dire il vero, poco è cambiato” e mi narra ancora i fatti del 7 ottobre. Mi racconta che ancora oggi, dal salotto di casa sua, si sentono i colpi dell’artiglieria. L’impressione è che Sderot viva ancora in trincea anche quando non fa notizia. Parliamo di politica. Farer è disilluso: “Prima delle elezioni Netanyahu veniva a Sderot. Dopo il 7 ottobre, non l’abbiamo più visto.”.
Nel frattempo, si è immerso nella lettura: “Ho ripreso in mano Locke e Mill. È lì che trovo senso. Per me il sionismo è una forma di liberalismo: l’idea che gli ebrei abbiano il diritto di autodeterminarsi come popolo libero creando una democrazia con pari diritti. Chi lo nega, da destra o da sinistra, nega questo principio. Antisionismo e antisemitismo sono egualmente illiberali”.
Il bisogno di vivere, oltre la guerra
Passeggiamo per le strade, entro nei bar, provo a parlare con chi incontro. A un certo punto pongo una domanda diretta: se dovessi scegliere tra la liberazione immediata degli ostaggi e la sconfitta totale di Hamas, cosa sceglieresti? Nessuno mi dà una risposta netta. Un barista, con una t-shirt del manga giapponese One Piece, sorride: “Ah, sei interessato alla politica? Io no. Sono un businessman.” Lo stesso accade con una dipendente di un altro bar: “Sono italiano, giudicherò il tuo cappuccino… ma tu che idea ti sei fatta della situazione politica?” Lei sorride. Si parla solo del tempo e della routine. È chiaro: Sderot vuole vivere. Vuole farlo senza retorica e con dignità.
Incontriamo altri due segni del tempo che Sderot sta vivendo. Il primo è un caravan colorato, bloccato con una ganascia: appartiene all’Israel Trauma Coalition e ospita uno sportello mobile di sostegno psicologico. Vi sono immagini di bambini e piccoli animali: un richiamo alla cura e, forse, alla resilienza emotiva. Pochi metri più avanti, un grande cartellone giallo con la bandiera israeliana ritrae una famiglia abbracciata a tre figure in divisa. La scritta, firmata dal Comune di Sderot, recita: “La città di Sderot saluta gli uomini e le donne delle forze di sicurezza, i riservisti e le loro famiglie.”
L’incontro con attivisti religiosi
Più tardi, mi dirigo da solo fino a Givat Kobi, un punto panoramico sopraelevato da cui si osserva la Striscia. Il cielo è limpido e noto chiaramente il fumo: si avvertono i colpi in lontananza. Proprio lì, arrivano un’attivista del movimento Nachala e, poco dopo, il parlamentare Moshe Solomon, del Partito Sionista Religioso. Parlano a una ventina di persone, tra cui alcuni americani. L’attivista srotola una mappa plastificata: vi sono segnati nuovi insediamenti da costruire a Gaza. “Returning to Gaza”, è il nome della campagna. Solomon ha una storia particolare: è nato in Etiopia ed è vissuto per tre anni come profugo in Sudan, prima di arrivare in Israele. Ne parla con orgoglio: “Sono stato un rifugiato in Sudan per tre anni. Quando ero là sapevo che non ero nel posto che mi apparteneva e non minacciavo le persone di quel posto, non ero un pericolo. Avevo in mente di giungere fino a Israele. Una delle più grandi operazioni fatte per dare un’opportunità agli abitanti di Gaza è stato il disimpegno del 2005; abbiamo lasciato quell’area, il mondo ha dato molti soldi a Gaza, avrebbero potuto essere una Singapore ma hanno usato quei soldi per attaccarci e giungere al 7 ottobre. Non possiamo continuare nello stesso modo. Gli arabi in Gaza non vogliono trasformare Gaza in un posto pacifico in cui vivere. Gli arabi non hanno apprezzato la nostra mano tesa. L’hanno vista come una debolezza. Non possiamo trattare gli arabi in Gaza come se stessi trattando con un paese moderno e occidentale. Ogni accordo dovrà essere subordinato al controllo totale del nostro futuro. La terra d’Israele è nostra e siamo fieri della nostra identità. Ogni aiuto che entra in Gaza non deve finire nelle mani di Hamas. Dobbiamo però avere il controllo o non riusciremo a evitare che Hamas si impossessi dei rifornimenti”. Alla mia domanda su come concretizzare l’idea di un controllo totale sulla Striscia, alla luce dei rapporti logori con parte dell’Occidente e un processo in corso davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, Solomon risponde: “Bisogna fare in fretta”.
Prima di lasciare Sderot, torno da David Farer. Gli racconto quello che ho visto a Givat Kobi. Lui sospira: “Certo, ci sono tante idee. Anche quella. Ma io continuo a credere in un’altra: il sionismo come progetto liberale”. Mi racconta un dettaglio che aveva taciuto prima. Prima del 7 ottobre, tramite Facebook, era in contatto con un palestinese di Gaza: “Diceva di essere contro Hamas. Poi, prima ancora del 7 ottobre, è sparito. Nessun messaggio, nessun segnale. Non so il motivo.”.
Poi David sorride, indicando la sua gatta, nascosta sotto il divano: “Guarda, ha più paura di teche dei colpi di artiglieria. A quelli si è abituata.” Prima di congedarmi, David tocca anche il tema relativo alla causa ucraina: “L’Ucraina deve essere libera, Putin è un dittatore. Molti anni fa mi era stato offerto di lavorare per l’apparato russo ma ho rifiutato perché voglio vivere da uomo libero”.
Infine ci salutiamo mentre i colpi continuano in lontananza e la sua gatta può riprendere possesso della casa.