Paolo De Benedetti

Il coraggio di essere un ponte

di Vittorio Robiati Bendaud

Paolo De Benedetti. Cristiano e marrano, proveniva  da una famiglia di origini ebraiche. Pensatore e uomo straordinario, seppe coltivare e far fiorire lo spirito della propria ascendenza. Dando vitalità alle radici

Molti di noi hanno avuto il privilegio di ascoltare, frequentare o essere amici di Paolo De Benedetti e di sua sorella Maria, magari trascorrendo qualche ora in loro piacevolissima compagnia nella dimora astigiana di famiglia.
La lunga vita di Paolo si è spenta da pochi mesi e, dopo il cordoglio, ho ritenuto di onorare la sua memoria cercando di mettere ordine tra alcune considerazioni o suggestioni -assai incomplete e contestabili- su cui mi ritrovo talvolta a riflettere pensando al suo operato e alla sua biografia.
Quando si dice -giustamente- che Paolo era un intellettuale e un vero umanista, si dice il vero. Tuttavia, a dispetto della cortesia accogliente e sorridente di Paolo, il suo addentrarsi finemente negli studi filosofici, linguistici e teologici recava impresso, disvelandosi talora più talora meno, la severità, il metodo e la mole di studio che accompagnava la formazione degli “umanisti” piemontesi e lombardi nell’Italia di alcune decadi fa.
Quando parliamo di Carlo Maria Martini, Paolo De Benedetti e Giuseppe Laras, uno dei tratti comuni fondamentali è la loro “piemontesità” antebellica, dimensione tutt’altro che trascurabile. Si trattava, per l’esperienza diretta che ne ho avuto e che ne ho, di una forma di esistenza affatto particolare: schiva, piuttosto ingessata, molto esigente con se stessi, cordiale ma distaccata, poco incline alla chiacchiera, austera, dall’eleganza scarna. Questo tuttavia non ha impedito -anzi!- a nessuno dei tre, da prospettive diverse, originalità e duttilità, ma parrebbe piuttosto essere una nota fissa comune che risuona ritmicamente nelle tre differenti partiture.
Paolo, rispetto agli altri due grandi uomini che ho appena ricordato, è stato il meno “istituzionale”, sì che interessi culturali e biografia l’hanno portato a lavorare nel mondo editoriale, in una fase, in seno alla storia dell’editoria italiana, in cui i fermenti di eterogenee forme di pensiero, coniugati all’indiscusso valore intellettuale di molti editori e finanziatori, offrivano continue sollecitazioni e richiedevano rigore, fantasia, ardimento, continuo aggiornamento ed eccellenza.
PdB -come lo chiamavamo in molti- e la scoperta, per Bompiani, di Umberto Eco; PdB e Chaim Potok; PdB e il lancio, seppur in un ambiente maggiormente di nicchia, di Bonhoeffer.
E qui entra finalmente in scena un dato determinante della sua biografia: la discendenza da una famiglia ebraica ampiamente laicizzata e unitasi, attraverso matrimoni misti, a famiglie cattoliche e, contemporaneamente, di conseguenza, il suo essere cristiano e non ebreo.
Chi conosce almeno un po’ la storia dell’ebraismo europeo -e italiano nello specifico- sa bene che quanto accadde alla parte ebraica della famiglia di Paolo e Maria si inquadra in seno a un fenomeno estremamente ampio e complesso, che interessò -dolorosamente da una prospettiva ebraica- migliaia di ebrei dalla seconda metà dell’Ottocento sino a poche decadi fa. Dati i numeri ingenti di ebrei sposati con cristiani, di ebrei convertitisi all’epoca al cristianesimo -cattolico, luterano o calvinista- e, infine, di cattolici con ascendenze ebraiche di prima o seconda generazione, il caso personale “PdB” potrebbe essere considerato uno fra i molti. Ma, come è evidente, così non fu.
Credo che la grande domanda sia comprendere -e potrebbe dircelo solo Paolo- cosa nelle sue viscere, nel suo cuore e nel suo intelletto fece del dato umano biografico appena evocato, particolare certo ma condiviso da molti, il punto archimedeo di appoggio per l’originalità poderosa e delicata di PdB.
Paolo fu un ebraista cristiano.
Un cristiano di ascendenza ebraica. Un cristiano talora percepito come ebreo dai cristiani. Certamente fu una figura ponte nobilissima tra ebraismo e cristianesimo. Lui, per questi motivi, amava talvolta definirsi “marrano”.
Chi ha frequentato un po’ la storia del marranesimo – che ha caratteri simili e diversi rispetto al criptogiudaismo sotto l’Islàm – avrà compreso che si tratta di un fenomeno vastissimo, perdurato secoli, estremamente eterogeneo, con luci e ombre, doppie identità e fedeltà, schizofrenie. Rav Giuseppe Laras, nelle nostre ore di studio, mi ha insegnato e spiegato al riguardo molte cose, compreso il fatto che i tribunali rabbinici delle varie comunità sefardite che accolsero i marrani desiderosi di ritornare all’ebraismo, marrani di prima, seconda, terza, quarta generazione, ebbene questi tribunali lavorarono tantissimo, cercando di salvare il salvabile e di mettere ordine in situazioni psicologiche, identitarie e religiose delicatissime, magmatiche, talora persino esplosive.
Ma non tutti “tornarono a casa”. Molti marrani o discendenti di ebrei divennero cristiani convinti, di solito ferocemente antisemiti. Per ricorrere a termini metaforici, che andrebbero tuttavia presi con le pinze, parrebbe quasi forse esservi una sorta di misterioso “carattere recessivo” transgenerazionale nell’identità ebraica, anche quando questa non è più tale e va perdendosi nel corso di una generazione. Spesso, questa identità, -o frammento di identità-, riaffiora, si manifesta, ha i suoi imbarazzi e chiede di essere ascoltata e compresa. Sovente nella storia è accaduto che, qualora la domanda identitaria circa l’ebraismo riaffiori nel non ebreo discendente da ebrei, questa talvolta possieda un carattere di virulenta ostilità verso l’ebraismo, forse conseguente dal fatto di parzialmente sentirsi tali ma di non esserlo né de jure né de facto. Vi sono, purtroppo, al riguardo biografie inquietanti e drammaticamente clamorose. Una sorta di identità infelice, con sentimenti ambivalenti. Paolo, evidentemente, non è caduto in questa tentazione o in questa necessità. Al contrario, Paolo ha rilanciato, riscoperto, nutrito e resa vitale, in maniera attiva e non passiva, integrante e non subita, la sua ascendenza ebraica. Ed è stato coraggioso, specie in un mondo occidentale e cristiano non sempre generoso verso gli ebrei, all’epoca -quando iniziò questa sua avventura di “ponte”, che ne ha segnato e definito la biografia personale e culturale- molto più ignorante di oggi circa l’ebraismo e carico di ostilità e pregiudizi vecchi (teologici e morali) e nuovi (morali e politici).
Fu questa prospettiva unica, conquistata e affinata, che permise a Paolo di spiegare, facendosi amare, l’ebraismo ai cristiani e, per converso, di farsi apprezzare da non pochi ebrei. E fu così che PdB offrì il suo contributo unico e generoso nella lotta contro l’antisemitismo, l’antigiudaismo e talvolta contro l’antisionismo.
Ma c’è di più. Fu ancora questa prospettiva unica -che, come tale, fu una prospettiva credente- a rendere in ambito culturale ed editoriale Paolo De Benedetti più aperto, più libero e maggiormente disponibile nel diffondere e far tradurre in italiano la -letteratura ebraica religiosa -filosofica e no- rispetto a certe cerchie dirigenziali dell’ebraismo italiano, all’epoca molto laico, culturalmente orientato e militante.