di Nina Deutsch
È la prima volta che un candidato apertamente antisionista si avvicina alla guida della città con la maggiore popolazione ebraica al di fuori di Israele. Una svolta che agita la diaspora e spacca la comunità.
Zohran Mamdani, 33 anni, deputato statale del Queens e figura di punta del movimento socialista newyorkese, ha battuto nettamente l’ex governatore Andrew Cuomo nelle primarie democratiche per la corsa a sindaco di New York. Un risultato che ha scosso il panorama politico americano e messo in allarme una parte significativa della comunità ebraica cittadina e internazionale.
Con circa il 43,5 % dei voti (contro il 36,4 % raccolto da Cuomo), Mamdani ha trasformato un’elezione municipale in un referendum sul futuro del progressismo urbano, ma anche – e soprattutto – sul rapporto tra sinistra americana e mondo ebraico.
Chi è davvero Zohran Mamdani?
Per capire cosa sta accadendo, bisogna partire da lui. Zohran Kwame Mamdani è nato nel 1992 a Kampala, in Uganda, da padre accademico – il celebre politologo ugandese Mahmood Mamdani – e da madre di origine indiana, la nota regista, produttrice e sceneggiatrice americana, Mira Nair. Cresciuto tra il Queens e l’attivismo universitario, è emerso negli anni come una delle giovani voci più radicali della sinistra americana. È membro dichiarato dei Democratic Socialists of America, l’ala più a sinistra del Partito Democratico, e da sempre si batte per un’agenda fondata su giustizia sociale, case popolari, trasporti pubblici e antirazzismo.
Ma è la sua posizione su Israele a catalizzare le polemiche.
Mamdani si definisce apertamente antisionista. Ha sostenuto il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) contro Israele, ha accusato Tel Aviv di “genocidio sistemico” e si è rifiutato più volte di riconoscere il diritto di Israele a esistere come Stato ebraico. È stato tra i promotori, durante la sua carriera universitaria e poi legislativa, di risoluzioni e iniziative che puntavano alla fine degli aiuti militari statunitensi a Israele.
Durante le recenti manifestazioni pro-Gaza a New York, Mamdani è apparso al fianco di slogan come “globalizzare l’intifada”, un’espressione che – al netto delle intenzioni simboliche – è stata letta da molti leader ebrei come una legittimazione della violenza contro Israele e i suoi cittadini.
Nell’arco di cinque anni è passato da outsider di quartiere a voce potente della nuova sinistra. La sua elezione a deputato statale nel 2020 fu un primo segnale, ma la vittoria attuale lo proietta verso la leadership della città con la più grande popolazione ebraica fuori da Israele. E qui iniziano le vere fratture.
Una comunità ebraica divisa tra timori e aperture
Le reazioni nel mondo ebraico non si sono fatte attendere – e riflettono profonde linee di frattura.
Una parte significativa della comunità, in particolare quella ortodossa e conservatrice, ha reagito con forte preoccupazione. «È come se fossimo tornati agli anni Trenta», ha dichiarato un esponente della comunità sefardita di Brooklyn. L’American Jewish Committee ha diffuso una nota in cui chiede «chiarezza urgente» sulle posizioni del candidato rispetto al diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico.
Le critiche più dure si concentrano sul fatto che Mamdani, pur affermando di condannare l’antisemitismo, rifiuta esplicitamente l’esistenza di Israele come Stato ebraico, sostenendo che «nessuno Stato dovrebbe basarsi sull’identità etnica o religiosa». Un principio che, sebbene coerente con la sua visione universalista, collide frontalmente con l’idea – centrale nel sionismo moderno – della sicurezza del popolo ebraico attraverso un proprio Stato nazionale.
Eppure, non tutta la comunità è allineata su questa lettura.
Una parte del mondo ebraico progressista, in particolare tra le nuove generazioni, ha appoggiato apertamente Mamdani. Come riportato da The Forward, un gruppo di attivisti e intellettuali ebrei newyorkesi ha lanciato una lettera aperta in suo favore, affermando che «essere ebrei non significa sostenere ogni politica del governo israeliano». Alcuni parlamentari ebrei democratici, come Alexandria Ocasio-Cortez e il senatore Bernie Sanders (lui stesso ebreo), hanno mantenuto una posizione ambigua ma non ostile.
Una questione locale con implicazioni globali
La portata della candidatura Mamdani va ben oltre i confini cittadini. Il sindaco di New York ha poteri amministrativi, non politici, in politica estera – ma il simbolismo della sua figura potrebbe avere ripercussioni molto più ampie, soprattutto per la diaspora ebraica globale.
In Israele, i principali media ebraici hanno espresso sconcerto: The Jerusalem Post ha parlato di «un pericolo ideologico che mette in discussione l’alleanza storica tra Israele e gli Stati Uniti attraverso la retorica della sinistra radicale». Il Times of Israel ha invece sottolineato la contraddizione tra le preoccupazioni ebraiche e il fatto che «alcuni esponenti ebrei abbiano appoggiato Mamdani, evidenziando una frattura generazionale e politica nel mondo ebraico americano».
In Europa, soprattutto nel Regno Unito e in Francia, le comunità ebraiche seguono la vicenda con attenzione. Alcuni analisti della Jewish Chronicle hanno paventato il rischio che l’antisionismo venga normalizzato nel discorso pubblico, mentre in Germania il Jüdische Allgemeine ha definito la situazione «un campanello d’allarme per le diaspore europee: se accade a New York, può accadere ovunque».
Quali scenari si aprono?
Se Mamdani dovesse vincere anche le elezioni generali di novembre, si aprirebbe una stagione complessa. Da un lato, il suo programma sociale potrebbe conquistare molti cittadini – anche ebrei – stanchi della gestione del sindaco Eric Leroy Adams che di Mamdani ha detto: «È un venditore di elisir di lunga vita – ha detto Adams come riportato dal Italia Report Usa – . Direbbe e farebbe qualsiasi cosa per farsi eleggere». Dall’altro, l’atteggiamento di Mamdani verso Israele e le ambiguità su cosa significhi antisionismo in termini pratici rischiano di danneggiare gravemente i rapporti tra sindaco e comunità ebraica.
La diaspora ebraica internazionale si trova oggi divisa, spiazzata, in parte silenziosa. C’è chi chiede di non criminalizzare un’intera visione politica, chi teme che ogni critica a Israele venga equiparata all’odio antisemita, ma anche chi – con crescente inquietudine – vede avvicinarsi un’era in cui l’ebraicità diventa un elemento scomodo nelle agende progressiste.
La posta in gioco non è solo il Campidoglio newyorkese. È il futuro stesso dell’alleanza tra sinistra e mondo ebraico. E in filigrana, una domanda più grande: è ancora possibile essere ebrei e progressisti in un’America che cambia volto?
La variante Houellebecq: Islam e sinistra nell’America urbana
Michel Houellebecq, autore del romanzo Sottomissione, diceva che il processo di islamizzazione delle società occidentali è lento ma inesorabile. «Non sappiamo quando accadrà, ma la direzione è chiara», dichiarava in un’intervista. Se in Francia questo processo è avvertito da anni, oggi anche negli Stati Uniti comincia a mostrare i suoi segni.
In questo contesto – come si legge sul sito Setteottobre – New York diventa uno specchio. Come scrive Jonathan Chait su The Atlantic, nella città americana più segnata dall’11 settembre oggi la popolazione musulmana sfiora quella ebraica: «L’11% contro il 10%. Ma mentre gli ebrei sono divisi e in parte integrati, i musulmani votano in blocco, portano avanti un’agenda transnazionale e stanno colonizzando il dibattito locale con le stesse dinamiche viste a Londra, Bruxelles o Parigi».
“Big Apple Intifada”, ha titolato Rod Dreher. Mamdani non ha vinto da solo. La sua campagna è stata sostenuta dall’attivismo universitario, da organizzazioni comunitarie e dal voto giovanile bianco e progressista, quello che oggi accoglie con entusiasmo le istanze islamiste – finché sono contro Israele, contro l’Occidente e contro la tradizione liberale.
Un numero crescente di giovani americani parla di Gaza con toni militanti, marcia al fianco di organizzazioni che lodano Hamas, inneggia all’intifada nei campus, e riscrive la mappa dell’identità americana in nome di un internazionalismo postcoloniale. Come raccontano i reportage da Dearborn, Paterson o Hamtramck, l’islam politico non è più un fenomeno di periferia. È parte del mainstream urbano progressista.
L’alleanza demografica
Il nuovo blocco che si va formando è quindi una combinazione di masse migranti, giovani universitari radicalizzati e apparati democratici locali che, incapaci di offrire un’identità forte, si affidano alla spinta organizzativa delle moschee e delle reti etniche.
«Non è solo una questione di politica estera o di opinioni su Israele – scrive Duncan Moench su Tablet – ma di visione del mondo. Chi oggi guida queste coalizioni vuole dissolvere ogni frontiera: civica, culturale, religiosa. E l’unico nemico che riconosce è l’Occidente stesso».
Nei sobborghi come Dearborn, città che fino agli anni ’80 era popolata da cristiani assiri e caldei, oggi la chiamata pubblica alla preghiera è quotidiana, le chiese sono state trasformate in moschee e i sermoni inneggiano a Hezbollah e Hamas. Lo stesso accade a Minneapolis, Paterson, Los Angeles, dove la “kefiah generation” si salda ai movimenti anticoloniali, post-identitari e antioccidentali.
Le istituzioni progressiste non solo non resistono a questo movimento, ma spesso lo agevolano. In nome dell’inclusività, si accettano alleanze con chi nega i valori fondamentali della società libera. «La sinistra – come scriveva lo storico, giornalista e sindacalista Jacques Julliard – è passata da mangiapreti a lecca-burqa».
LEGGI ANCHE
- Forward – Mamdani vince con parte del supporto ebraico
- Times of Israel – Deputati ebrei appoggiano Mamdani nonostante le preoccupazioni comunitarie
- The Jewish Chronicle – Il candidato anti-Israele vince le primarie
- The Jewish Chronicle – Chi è Zohran Mamdani?
- Financial Times – Mamdani: salvatore dei Dem o zavorra?
- Setteottobre – Il primo sindaco islamico di New York che vuole “globalizzare l’Intifada”