Perché attaccare l’Iran sarebbe un errore

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Ormai parliamo dell’Iran tutti i giorni, nell’ultimo anno Ahmadinejad è riuscito a diventare più celebre persino di Brad Pitt, ma quanto conosciamo davvero di questa Nazione? Quanto sforzo impieghiamo, noi occidentali, per colmare le nostre lacune?

L’Iran che noi conosciamo non è il paese ricco di storia delle Mille e una Notte e non è nemmeno il paese ricco di contraddizioni di chi aveva preso la strada per una modernizzazione e poi è tornato sotto la ferrea legge islamica. L’Iran è il paese dove essere omosessuali è un reato punito con la pena di morte, ma dove musulmani da tutto il Medio Oriente vengono a farsi operare per cambiare sesso, operazione oggi permessa dalla legge dopo che un ayatollah diede un´interpretazione meno restrittiva alle norme in questione.
L’Iran è un paese dove i religiosi sono mal visti dalla popolazione, sono accusati di corruzione e spesso i tassisti si rifiutano di portarli in macchina. Quello di cui parlo è un paese dove le donne hanno ben pochi diritti, ma possono andare all’università e in quel luogo imparano che possono ottenere più rispetto e più diritti di quelli concessi dal governo e che non sono un mero possesso dei mariti o padri. Le donne devono portare il velo e, come gli uomini, vengono spesso fermate per le strade di Teheran dalla polizia incaricata di controllare che le regole del decoro per quanto riguarda l’abbigliamento vengano rispettate, ma non è solo sul velo che dobbiamo riflettere. Le donne non possono chiedere il divorzio perché, come dice lo stesso ayatollah Hossein Ali Montazeri che fu studente di Khomeini,
“Il divorzio dovrebbe restare una prerogativa maschile perché gli uomini sono in grado di valutare meglio il futuro. Se un uomo non desidera più la moglie sa che se la ripudia dovrà cercarsene un’altra che badi alla casa e ai figli. Ma trovare un’altra sposa potrebbe non essere facile, motivo per cui
l’uomo cerca di controllarsi, cosa che riesce difficile alle donne: le mogli, quando si arrabbiano, non esitano a chiedere il divorzio!”.
Purtroppo credo che anche tanti uomini che si definiscono progressisti qui in occidente, quindi al di fuori dell’Iran, si trovino d´accordo con quest’affermazione.

L’Iran è anche una società tradizionale dove, oltre al controllo del governo, vi è il controllo dei vicini di casa, dei conoscenti per quanto riguarda atteggiamenti considerati troppo liberali soprattutto tra i
giovani.

La domanda che sorge spontanea è, ma perché se c’è tanto malcontento i tentativi di manifesta opposizione non sono andati a buon fine? Perché non si sono trasformati in rivoluzione?
Secondo la giornalista e professoressa di Storia dell’Iran Farina Sabati gli iraniani non vogliono versare altro sangue in una rivoluzione. Il popolo iraniano ha conosciuto più di una rivoluzione e sa quanto un
cambiamento con questo metodo sia caro per la vita umana. Gli iraniani non sono apatici però praticano una resistenza silenziosa. Molti scrittori pubblicano i propri romanzi usando metafore e allusioni, così riuscendo a superare il controllo del Ministero della Censura.
I registi si esprimono attraverso delle fiction che lanciano messaggi forti, la censura è quasi meno attenta alla televisione che ai giornali.

Un altro segnale di cambiamento viene dalla stessa politica dove meno di un mese fa il Majlis (il parlamento iraniano) ha fatto passare una proposta – fortemente voluta dall’opposizione – con cui si chiedeva di accorciare il mandato di Ahmadinejad anticipando le elezioni presidenziali.
La spinta riformatrice ha radici lontane, si è mostrata con lo Shaa Reza Pahlavi negli anni Cinquanta, è tornata con la presidenza di Kathami che ha, utilizzando le parole di Sergio Romano, “liberato le energie giovanili di una società straordinariamente vivace”, energie che sotto questo governo
eletto da una maggioranza dei votanti che furono solo il 10 per cento degli aventi diritto al voto, non riescono a liberarsi.

Considerare questo governo e il suo presidente elementi destabilizzanti per la politica internazionale, è comprensibile. Voler un cambio di governo in Iran è auspicabile da chiunque abbia interesse sia nell’equilibrio tra le potenze sia da chi abbia a cuore i diritti umani e civili. Decidere con la macchina militare quando questo debba avvenire è un errore per chi prenderà l’iniziativa e per chi starà a guardare. Attaccare l’Iran e quindi tutta la popolazione iraniana, non solo il governo, significherebbe
interrompere le energie riformatrici che esistono e che aspettano il momento giusto per emergere, forse al termine della legislatura, probabilmente ridotta, di Ahmadinejad.

Attaccare l’Iran significherebbe creare consenso interno attorno a questo presidente il quale utilizza la questione dell’energia atomica come ancora di salvezza per non aver rispettato le promesse elettorali fatte agli iraniani riguardo alla riduzione della disoccupazione, riduzione del costo della benzina importata dall’estero, riduzione della quantità di petrolio bruciato per necessità interne compresa l’elettricità e aumento della ricchezza pro-capite.
Infine attaccare l’Iran significherebbe mandare a morte soldati e civili di tutte le fazioni.
Se davvero vogliamo un cambiamento di governo in Iran, se vogliamo che la spinta modernizzatrice e filo-occidentale torni ad avere popolarità e che l’aspirazione all’energia nucleare sia davvero solo per un uso pacifico, aiutiamo le donne che in Iran lottano per i propri diritti, prima in casa poi in politica, leggiamo e pubblichiamo anche qui i libri degli scrittori iraniani che ci raccontano in maniera approfondita il loro paese, sosteniamo chi sta costruendo un tessuto sociale che sosterrà un altro tipo di governo in futuro, governo che sarà eletto dagli iraniani e non imposto da noi.