di Nina Deutsch
Una folla compatta, ferita ma determinata, si riunisce per ricordare le vittime ebraiche di Israele e per piangere anche le nuove morti nella sinagoga di Heaton Park, a Manchester, durante lo Yom Kippur.
Non esiste pace senza una memoria comune. Ed è con questo spirito che, in giorni di dolore e raccoglimento, il mondo ebraico, Israele e i loro sostenitori si ritrovano per ricordare una data che ha segnato la storia recente: quel 7 ottobre che molti definiscono “un frammento di Shoah in Medio Oriente”. Un giorno che continua a pesare come una ferita aperta, mentre ancora oggi decine di ostaggi restano nelle mani di Hamas e i negoziati di pace si giocano sul filo della speranza.
Diverse le commemorazioni nel mondo per non dimenticare. A Londra, domenica, in una Trafalgar Square battuta dal vento, migliaia di persone si raccolgono in silenzio e sfida per il secondo anniversario dei massacri di Hamas. Una folla compatta, ferita ma determinata, si riunisce per ricordare le vittime ebraiche di Israele e per piangere anche le nuove morti nella sinagoga di Heaton Park, a Manchester, durante lo Yom Kippur.
Come riporta Jewish News, la piazza, che può contenere al massimo cinquemila persone, appare gremita. Ma qui non contano i numeri: contano la testimonianza, la resilienza, la volontà di non restare in silenzio. A presiedere la toccante cerimonia è Henry Grunwald, avvocato, esperto in diritto penale e figura eminente nella comunità ebraica del Regno Unito, che apre con parole di dignità e fermezza.
Il presidente del Board of Deputies, Phil Rosenberg, racconta di aver trascorso lo Shabbat con la comunità di Heaton Park, a Manchester. «Abbiamo pregato, pianto, ma anche ballato insieme», ricorda. «Gioia ebraica, orgoglio ebraico. Noi, il popolo ebraico, ci rifiutiamo di lasciarci intimidire».
Ogni intervento risuona di dolore e di sfida. Keith Black, presidente del Jewish Leadership Council, si presenta come «orgoglioso ma profondamente angosciato ebreo di Manchester» e denuncia con forza che «l’antisemitismo in questo Paese è fuori controllo». Le sue parole strappano applausi e commozione. Ma subito aggiunge: «Questa è casa nostra e non ce ne andremo. Restiamo saldi, uniti e coraggiosi. La nostra leadership è determinata a difendere il nostro modo di vivere».
Il videomessaggio dell’ex ostaggio britannico-israeliana Emily Damari scuote la piazza: «Usate la vostra voce. Non è il momento di tacere». Un monito che trova eco nelle parole del console israeliano Sima Doovdevani: «Il silenzio di fronte al terrore non è un’opzione».
Il momento più toccante arriva forse con la testimonianza di Shaun Lemel, sopravvissuto al massacro del Nova Festival. Aveva 26 anni, era tornato in Israele per una visita e in pochi minuti la festa si trasforma in inferno. «Alle 6:18 del mattino ballavo, alle 6:29 la musica si è spenta», ricorda con la voce rotta. Salvato da amici, a sua volta aiuta tre sconosciuti: «Ora sono la mia famiglia».
A seguire, la regista anglo-israeliana Sharone Lifschitz, i cui genitori, Oded e Yocheved, furono rapiti da Hamas: la madre sopravvive, il padre no. «Oggi scegliamo di provare dolore, ma di non trasformarlo in odio», dice. «Solo così la memoria dei nostri morti sarà una benedizione».
Adam Ma’anit, del Board of Deputies, racconta la tragedia personale: suo cugino Tsachi Idan, rapito dopo aver visto la figlia Ma’ayan uccisa, muore in prigionia. «Ogni nome, ogni volto, ogni storia ci ricorda che la memoria non è un dovere, ma una necessità per restare umani».
Il rabbino capo Sir Ephraim Mirvis intona una struggente preghiera El Maale Rachamim, seguito dai rabbini riformisti Charley Baginsky e Josh Levy con il Salmo 121.
La cerimonia si conclude con l’accensione di 23 candele, una per ciascuna comunità colpita dagli attacchi del 7 ottobre. L’ultima, la ventitreesima, è accesa dalla sopravvissuta all’Olocausto Mala Tribich – un gesto che intreccia due memorie, due dolori, una sola speranza.
Attorno, una forte presenza di polizia e del Community Security Trust. Ma ciò che riempie davvero la piazza è la promessa collettiva: non dimenticare.
Henry Grunwald chiude l’incontro con un augurio che è anche una preghiera: che questo possa essere «l’ultimo raduno del genere» e che l’appello «Riportateli a casa» trovi finalmente risposta.