La Pace di Donald alla prova: una sfida ambiziosa, visionaria, fragile

Mondo

di Francesco Paolo La Bionda

Restituiti gli ostaggi, sarà il disarmo la fase più difficile del Piano di pace. Seguirà la nomina di un’amministrazione tecnocratica a Gaza per guidare la ricostruzione. Con la prospettiva di estendere gli Accordi di Abramo, il Presidente Trump vuole neutralizzare l’Iran, mettere nell’angolo la Cina e portare a termine la “Via del Cotone”, il nevralgico corridoio commerciale che va dallo stretto di Malacca al Bosforo, fino all’Italia e Francia. L’analisi di Maurizio Molinari

Il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, concordato con la mediazione del presidente statunitense Trump ed entrato in vigore il 10 ottobre scorso dopo due anni di guerra, ha aperto molti interrogativi sia sul corso effettivo che potrà prendere l’ambizioso Piano di pace sia sulle implicazioni per un Medio Oriente irrimediabilmente cambiato e per gli equilibri geopolitici globali.

Per gettare luce sui possibili scenari futuri, Bet Magazine/Mosaico ha intervistato un osservatore acuto ed esperto, con un punto di vista privilegiato in virtù di una lunga esperienza di affari internazionali: Maurizio Molinari, già direttore de La Stampa e de La Repubblica e in precedenza corrispondente dal Medio Oriente e dagli Stati Uniti.

Partiamo da Israele e dai palestinesi: che cosa potrà succedere a Gaza, nello Stato ebraico e in Cisgiordania?

La prima fase dell’accordo ha riguardato la restituzione degli ostaggi, sia vivi sia morti. La fase due riguarda il disarmo di Hamas, che aveva accettato questa parte dell’accordo, senza mai contestarla, ma ha utilizzato le sue armi per eliminare i propri rivali nelle zone sotto il suo controllo, ponendo l’interrogativo se voglia forzare gli accordi oppure rispettarli. Se l’operazione non dovesse andare a conclusione, gli Stati Uniti si sono già detti favorevoli alla ripresa dell’offensiva israeliana.

La difficoltà sta dunque nella necessità che qualcuno raccolga materialmente le armi: dovrebbero essere gli egiziani, assieme ai qatarini e agli emiratini. Si tratta quindi di un’operazione complessa, anche per chi, come l’Egitto, ha un grande controllo del territorio e conosce Hamas, perché quest’ultima probabilmente ha ancora tra i 5.000 e i 7.000 uomini armati. Il disarmo deve portare anche, inevitabilmente, alla fuoriuscita dei comandanti dell’organizzazione terroristica, quelli rimasti in vista, perché senza armi e senza protezione non vorranno essi stessi rimanere a Gaza. Si pone quindi il tema di quali Paesi li accoglieranno: i più probabili sono Algeria, Turchia e Qatar.

Parallelamente al disarmo, il piano Trump prevede che si insedi un’amministrazione tecnocratica a Gaza, formata da palestinesi che assumano il controllo dell’amministrazione civile e della distribuzione degli aiuti umanitari, che sono la priorità per il momento. Bisogna però scegliere queste figure, che sulla base del patto di Sharm el-Sheik saranno indicati soprattutto da Stati Uniti, Qatar, Turchia ed Egitto.

Allo stesso tempo, si deve insediare il Board of Peace, presieduto dallo stesso Trump, che fungerà da cappello politico dell’intera operazione.

Infine, si dovrebbe tenere a novembre una conferenza per la ricostruzione di Gaza, in cui i paesi europei ed arabi, assieme ad altri, parteciperanno per concordare cosa saranno disposti a mettere per la ricostruzione della Striscia. Qui ci sono due binari: le infrastrutture civili, in particolare quelle sanitarie, e la sicurezza, col sostegno al contingente interforze a guida egiziana.  L’Italia è in grado di collaborare su entrambi i fronti e, verosimilmente, manderà dei contingenti dei carabinieri sul terreno e allo stesso tempo parteciperà anche alla ricostruzione degli ospedali.

Per quanto riguarda la regione mediorientale, quali scenari possibili?

Lo scenario regionale vede la volontà degli Stati Uniti di estendere gli Accordi di Abramo, facendovi partecipare l’Arabia Saudita, l’Azerbaigian, il Libano, la Siria e l’Indonesia. Quest’ultima è cruciale in questo frangente, perché l’idea che accomuna Trump e suo genero Jared Kushner, vero artefice di questi patti, è di estendere la riconciliazione con Israele dal mondo arabo all’intero mondo musulmano, e l’Indonesia è il paese musulmano più popoloso al mondo.

Trump inoltre è intenzionato, e questo è interessante, a coinvolgere anche l’Iran, che è l’unico Paese al mondo ad essere contrario al piano su Gaza. Il presidente americano è convinto che, dopo i colpi subiti nella guerra dei dodici giorni e in ragione delle sanzioni aggressive che l’ONU ha ripristinato nei confronti della Repubblica Islamica, sia nell’interesse iraniano di entrare negli Accordi di Abramo e far parte del processo di pace mediorientale.  Sarebbe un’apertura che metterebbe in difficoltà il regime, perché dovrebbe negare la propria natura, ma potrebbe creare al suo interno una dinamica interessante, permettendo ai riformisti, se davvero ci sono, di alzare la testa e chiedere che venga colta l’opportunità per uscire dalle sanzioni e rientrare nelle dinamiche regionali.

Sappiamo che il pogrom del 7 ottobre è stato lanciato da Hamas per affossare gli Accordi di Abramo, quindi se adesso gli Stati Uniti convincessero paesi importanti come Arabia Saudita e Indonesia a entrarvi, segnerebbe la sconfitta strategica dell’Iran. Ma i paesi arabi del Golfo, alleati degli Stati Uniti, che si accingono a entrare negli Accordi di Abramo e che saranno protagonisti della ricostruzione di Gaza, hanno interesse a coinvolgere l’Iran, per far sì che non continui a generare instabilità nella regione.

Per quanto riguarda invece le implicazioni globali?

Basta guardare una mappa del mondo per rendersi conto che, se gli Accordi di Abramo diventassero un’area geopolitica e geoeconomica che va dagli stretti della Malacca fino al Bosforo o a Suez, si trasformerebbero in un’evidente alternativa alla Nuova Via della Seta cinese. Non solo, arriverebbero anche, di fatto, nel Mar della Cina Meridionale, il cortile di casa cinese.

L’apertura all’Iran invece tradisce la volontà americana di coinvolgere la Russia, che è il maggior alleato di Teheran ma ha dato un giudizio positivo del piano Trump. Sappiamo d’altronde che Putin ha un buon rapporto personale e politico con Netanyahu che, prima di firmare l’accordo su Gaza, lo ha chiamato. Trump, dal canto suo, è convinto che, se Mosca collabora nella ricostruzione di Gaza e nel riassetto del Medio Oriente, potrebbe affrontare anche sotto una luce diversa il conflitto in Ucraina.