di Davide Cucciati
Coinvolgere le società cinesi come subappaltatrici comporta un aumento dei costi per Israele, ma non è lo stesso se si fanno lavorare sotto diretto controllo israeliano. Mentre diventa sempre più difficile per quelle europee operare in Israele. Per questo si punta ad ampliare il mercato, coinvolgendo la Cina e altri paesi dell’estremo oriente.
Il più grande bando infrastrutturale del Paese, quello per la costruzione della rete metropolitana nella zona di Tel Aviv, un progetto da 65 miliardi di shekel, è stato pubblicato a novembre. Ma il governo non ha una risposta alla domanda chiave: cosa accadrebbe se un’azienda cinese presentasse un’offerta o addirittura vincesse?
Un precedente significativo è quello della Blue Line della light rail di Gerusalemme. La gara è stata aggiudicata al consorzio guidato da Dan e Danya Cebus e il fornitore individuato per il materiale rotabile era la polacca PESA. Durante la guerra, PESA si è ritirata, obbligando il consorzio a cercare un’alternativa: la scelta è ricaduta sulla cinese CRRC che fornisce anche i vagoni della Red Line (nella foto). Quando CRRC ha chiesto l’approvazione dell’accordo all’Accountant General del Ministero delle Finanze, è iniziata un’interferenza statunitense esplicita. Globes riporta che, in quel periodo, alcuni soggetti avrebbero tentato di far fallire l’intesa sfruttando legami con l’amministrazione americana. In ogni caso, dopo la forte opposizione USA, l’accordo non è stato firmato. Si è arrivati a un compromesso: fornitura CRRC dallo stabilimento australiano con un rincaro di circa il 20%.
Sul fronte portuale, si segnala il ruolo cinese (tramite la società SIPG) nell’Haifa Bayport Terminal. Il fondo israeliano Noy Fund ha acquistato il 25% di Haifa Bayport per 600 milioni di shekel. La disponibilità di SIPG a ridurre la propria quota e far entrare un partner israeliano è stata spesso interpretata come un tentativo di liberarsi dell’etichetta di “porto cinese” che aveva provocato frizioni tra gli Stati Uniti e Israele.
È in questa cornice che si colloca l’analisi di Galia Lavi, vicedirettrice del Glazer Israel China Policy Center dell’INSS: le società cinesi, ora, mirano a posizionarsi come subappaltatrici. Esempi in tal senso sono i subappalti cinesi della Green Line, per i vagoni della Blue Line di Gerusalemme nonché per la costruzione di centrali elettriche nel nord. Il risultato, secondo Lavi, è contrario agli interessi israeliani; infatti, questo comporta un aumento dei costi a carico del bilancio pubblico israeliano stante un prolungamento della filiera e la scelta di appaltatori teoricamente più costosi rispetto a potenziali soggetti cinesi.
Secondo Lavi non ci sarebbe motivo di limitare le società di Pechino quando si tratta di scavare tunnel o costruire infrastrutture perché tutto avviene sotto la supervisione israeliana, salvo il tema dei siti sensibili. Inoltre, il mercato israeliano, un tempo caratterizzato da aziende europee che competevano tra loro, è cambiato con l’ingresso cinese che ha ampliato il campo e spesso imposto prezzi più bassi che gli europei non riuscivano a eguagliare portando così a un allontanamento delle società del Vecchio Continente.
Peraltro, oggigiorno, per le aziende europee operare in Israele è più difficile anche a causa di pressioni di organizzazioni pro-palestinesi, comitati, politici e investitori. In risposta, a Gerusalemme si lavora per ampliare un mercato che si sta restringendo. A tal proposito, la società israeliana NTA ha già inviato delegazioni in Corea del Sud e in India.



