di Sofia Tranchina
Il 19 dicembre 2025 il Ministero degli Affari Esteri siriano ha pubblicato su X un post celebrativo per segnare la fine del Caesar Act — il regime sanzionatorio del 2019 che mirava a soffocare ciò che restava dell’apparato di Bashar al-Assad. Il giorno prima il presidente americano Donald Trump ne aveva firmato l’abrogazione, aprendo formalmente la strada alla reintegrazione economica della Siria dopo oltre un decennio di guerra civile e isolamento internazionale. Il messaggio è trionfalistico: “Siria libera dalle sanzioni Caesar”, in arabo e in inglese, incorniciato dall’aquila e dalle tre stelle della nuova repubblica e da una mappa nitida del territorio siriano avvolta nel tricolore verde-bianco-nero della rivoluzione.
Ma la mappa racconta un’altra storia. Le Alture del Golan — occupate da Israele dal 1967, annesse nel 1981 e riconosciute come territorio sovrano israeliano da Trump nel 2019 — sono scomparse. Non solo i due terzi rimasti a Israele nell’accordo di disimpegno del 1974, ma anche gli ulteriori centosessanta chilometri quadrati occupati dalle forze israeliane nel dicembre 2024, nel caos seguito alla caduta di Assad. Assente anche il Sangiaccato di Alessandretta, oggi provincia turca di Hatay, annesso alla Turchia nel 1939 e rivendicato da Damasco per decenni, finché la Siria lo cancellò silenziosamente dalle mappe ufficiali nel 2004, durante i colloqui di normalizzazione con Ankara. La nuova Siria, a quanto pare, si ridisegna attorno alle assenze.
Nel giro di poche ore la stampa ha convocato i sospetti di sempre — tradimento da una parte, capitolazione dall’altra — mentre la verità continua a sfuggire. L’Osservatorio siriano per i diritti umani, con sede a Londra, ha bollato la mappa come “sottomissione totale ai diktat statunitensi e soddisfazione di tutte le richieste israeliane”, osservando che ricalca la cartografia israeliana. Altri ci hanno letto un segnale deliberato: una Siria esausta, affamata di aiuti occidentali, che concede tacitamente rivendicazioni territoriali che non ha la forza di imporre. Il precedente di Hatay rafforzerebbe questa lettura: Damasco aveva già rivisto strategicamente le mappe quando cercava la distensione con la Turchia. L’emittente libanese LBC ha parlato di “una rottura silenziosa ma sconvolgente con le stesse narrazioni della Siria”.
La spiegazione più plausibile resta l’errore burocratico — un funzionario subalterno che scarica una mappa generica da Google Images senza controllare i confini pre-1967. Ma anche gli incidenti rivelano qualcosa. Ciò che la mappa ha mostrato, per scelta o per negligenza, è una realtà che diplomazia e diritto internazionale hanno nascosto per decenni: le Alture del Golan sono perdute, e la Siria non ha i mezzi per riprenderle.
Le Alture del Golan
Il Golan non è mai stato solo una disputa territoriale: è un imperativo topografico. Gli altopiani dominano la Rift Valley del Giordano, sovrastano il lago di Tiberiade e alimentano circa un terzo dell’acqua dolce israeliana attraverso affluenti che nascono su pendici oggi sotto controllo israeliano. Chi controlla le alture controlla i corridoi di sorveglianza, l’accesso all’acqua e la geometria militare della deterrenza.
Dal 1949 al 1967 il confine fu poco definito: l’artiglieria siriana piazzata sulle Alture bombardava i kibbutzim israeliani sottostanti, mentre le due parti si scontravano su progetti di deviazione delle acque e su zone smilitarizzate che esistevano soprattutto nelle risoluzioni dell’ONU. Nel giugno 1967, dopo che l’Egitto di Nasser ammassò truppe nel Sinai e chiuse gli Stretti di Tiran, Israele lanciò un attacco preventivo a sud e poi virò a nord: lasciare intatte le fortificazioni siriane mentre si combatteva l’Egitto sarebbe stato militarmente insostenibile. Le forze israeliane scalarono i versanti occidentali e conquistarono in pochi giorni circa 1.200 chilometri quadrati, costringendo le unità siriane a ripiegare verso Damasco.
Sei anni dopo la Siria tentò la rivincita. Nel giorno di Yom Kippur del 1973, i carri armati siriani avanzarono oltre la linea del cessate il fuoco con 1.400 mezzi, riconquistando brevemente terreno prima che le riserve israeliane stabilizzassero il fronte nella Valle delle Lacrime (EmekHaBakha, teatro di una delle battaglie più cruciali e sanguinose della Guerra del Kippur) e contrattaccassero oltre le linee prebelliche. Nei colloqui per l’accordo di disimpegno, Israele segnalò la disponibilità a restituire porzioni di territorio, inclusa la distrutta Quneitra, ma la Siria pretese il ritiro completo. L’intesa, mediata nel 1974 da Henry Kissinger, arretrò le forze in posizioni monitorate e istituì la Forza di Osservazione del Disimpegno delle Nazioni Unite: un quadro che congelò il conflitto invece di risolverlo.
Seguì non la pace, ma uno stallo sorvegliato, punteggiato dalla logica inesorabile dell’accumulazione. Nel 1981 Israele estese le proprie leggi al territorio, formalizzando ciò che il controllo militare aveva già garantito. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU protestò — la Risoluzione 497 dichiarò l’annessione “nulla e priva di effetto” — formula elegante nella sua impotenza, che salvava il principio secondo cui la forza non crea sovranità, ma in ultima analisi irrilevante rispetto alla realtà sottostante. Israele non avrebbe restituito le Alture e la Siria non sarebbe mai stata abbastanza forte da riprenderle. Passarono decenni; la zona cuscinetto tenne, interrotta da occasionali colpi di mortaio durante la guerra civile siriana e da raid israeliani contro infrastrutture di Hezbollah e iraniane. Poi, nel marzo 2019, Donald Trump emise una proclamazione presidenziale che riconosceva la sovranità israeliana sul Golan — una rottura esplicita del consenso internazionale, accolta a Gerusalemme e ignorata dalla maggioranza.
Le vanterie di Trump e l’irrilevanza del diritto
Il giorno prima che il Ministero siriano pubblicasse la mappa senza Golan, il presidente Trump, durante una cerimonia di Chanukkà alla Casa Bianca, si è vantato di quella decisione che considera chiaramente una delle sue imprese distintive: “Ho firmato la concessione dell’altopiano del Golan a Israele. Ci lavoravano da settant’anni senza successo, ma io l’ho fatto rapidamente. Poi ho scoperto che il suo valore ammonta a migliaia di miliardi di dollari, a quel punto ho detto che forse avrei dovuto chiedere qualcosa in cambio”.
La frase rivela una visione del mondo in cui la sovranità è una merce da scambiare e il valore strategico si misura in potenziali flussi di ricavi. Le “migliaia di miliardi” di Trump poggiano su asset concreti: risorse idriche che riducono la dipendenza israeliana dalla costosa desalinizzazione, progetti eolici che generano centinaia di milioni l’anno, e il dividendo di sicurezza della profondità strategica. Che queste cifre si avvicinino o meno alla realtà, conta il fatto che Trump presenti il riconoscimento del 2019 come un dono, dispensato con l’enfasi di un dealmaker che poi scopre di aver sottovalutato l’asset.
Il silenzio della Siria di fronte alle parole di Trump è di per sé eloquente. Nessun comunicato del ministero ha condannato quelle affermazioni. La mappa pubblicata il giorno successivo è emersa in un contesto in cui Damasco aveva già scelto le sue battaglie, e il Golan non era tra queste. Le priorità della Siria a fine 2025 sono trasparenti perché disperate: alleggerimento delle sanzioni, fondi per la ricostruzione, legittimità internazionale e libertà di commerciare.
I calcoli e i punti ciechi di Israele
Quando Bashar al-Assad è caduto nel dicembre 2024, Israele si è trovato davanti al crollo di un nemico prevedibile e a un vuoto imprevedibile che spalanca la porta a due scenari ugualmente avversi. Il primo: che la nuova leadership siriana, proveniente da Hayat Tahrir al-Sham e guidata dal presidente Ahmed al-Sharaa, si riveli troppo debole per controllare fazioni estremiste pronte a sfruttare il caos per colpire oltre confine. Il secondo: che al-Sharaa consolidi il potere a sufficienza da rilanciare rivendicazioni territoriali e trasformarsi da insorto a irredentista.
La risposta di Israele è stata coprirsi su tutti i fronti contemporaneamente. Ha occupato ulteriori posizioni nella zona cuscinetto monitorata dall’ONU, inclusi rilievi attorno al Monte Hermon. Ha lanciato raid contro arsenali militari siriani, distruggendo ciò che restava delle scorte dell’era Assad. E, come ha rivelato un’inchiesta del Washington Post nel 2025, ha avviato una campagna segreta per armare milizie druse nella provincia di Sweida — paracadutando armi, munizioni, visori notturni e pagamenti mensili in contanti a migliaia di combattenti, insieme a supporto d’intelligence e aiuti umanitari diretti ai villaggi drusi. La logica: i drusi, minoranza religiosa priva di simpatia per un potere sunnita islamista, potranno fungere da cuscinetto nel cuscinetto, dissuadendo incursioni estremiste e complicando la capacità di qualsiasi futuro governo siriano di proiettare autorità vicino al Golan.
Ma questa strategia comporta rischi. La scommessa drusa di Israele minaccia di destabilizzare uno Stato che ha bisogno di ricostruzione più che di nuove fratture — ogni ulteriore frammentazione siriana rafforzerebbe proprio le fazioni estremiste che Israele teme.
Al-Sharaa, in un’intervista al Washington Post, ha inquadrato con lucidità l’espansione israeliana della zona cuscinetto non come misura di sicurezza ma come annessione incrementale, una logica che divora territorio senza mai dichiararsi soddisfatta: “Israele ha occupato le Alture del Golan per proteggere Israele, e ora impone condizioni nel sud della Siria per proteggere le Alture del Golan. Tra qualche anno, forse, occuperanno il centro della Siria per proteggere il sud della Siria. Su questa strada arriveranno a Monaco”.
Al-Sharaa ha dichiarato pubblicamente che la Siria non aderirà agli Accordi di Abramo, ma resta disponibile a discutere intese con Israele — a condizione che le forze israeliane si ritirino alle linee del 1973. Entrambe le parti sanno che questa precondizione è inaccettabile.
Quando lo stesso governo che lancia questo avvertimento pubblica una mappa che esclude del tutto il Golan, anche si trattasse di una semplice svista, ciò che emerge è il divario tra la sovranità retorica di Damasco e la sua incapacità materiale — un divario abbastanza ampio da accogliere i fatti compiuti israeliani, il riconoscimento americano e una mappa celebrativa che cede in silenzio ciò che non può recuperare.
La traiettoria della Siria — se si orienterà verso un’integrazione con Israele e gli Stati Uniti o se tornerà a gravitare verso Turchia e Russia — resta genuinamente incerta, e questa incertezza disturba. Damasco deve navigare tra platee interne e interlocuzione occidentale, mentre i media saltano su ogni occasione per ridefinire le sue alleanze.
Quando Ahmed al-Ahmed, emigrato siriano, è intervenuto per fermare uno degli aggressori a Bondi Beach che sparava contro una folla riunita per Chanukkà, i media si sono affrettati a presentare la vicenda come prova di un allineamento siriano emergente con Israele. È andato perso, nella copertura, il fatto che la sua famiglia, in più interviste, lo abbia elogiato per aver salvato “vite umane, cristiane, musulmane o di altro tipo” — un eufemismo vistoso per l’omissione della parola “ebraiche”, nonostante l’attacco fosse esplicitamente antiebraico per bersagli e intenti. L’eroismo era autentico; il disagio verso una solidarietà senza riserve, altrettanto. E i media hanno scelto cosa raccontare, così come hanno ignorato la parata militare organizzata dal governo siriano due settimane prima.

Per l’anniversario della caduta di Assad, dei parapendii sono scesi portando bandiere siriane, libanesi e brasiliane — un’immagine che una parte del pubblico ha immediatamente letto come un’allusione all’assalto di Hamas del 7 ottobre, con l’assenza della bandiera palestinese interpretata come cautela tattica più che come negazione. Che questa lettura sia corretta o frutto di proiezione resta inconoscibile. È possibile che l’esibizione mirasse a placare chi teme che al-Sharaa sia diventato un burattino americano. È altrettanto possibile che il riferimento esista solo nell’immaginazione di osservatori predisposti a scorgere minacce. Ma ciò che accomuna questi episodi all’omissione del Golan nella mappa è la velocità con cui l’ambiguità collassa in certezza. La Siria diventa o la nuova alleata di Israele o una minaccia nascente, a seconda dei segnali che si privilegiano e di quelli che si ignorano.
L’incidente della mappa non sarà ricordato come un punto di svolta. Non ha modificato confini, spostato forze o cambiato menti. Ma ciò che ha fatto — per disegno o per negligenza — è rendere visibile una realtà che diplomazia e diritto internazionale hanno nascosto per decenni, una verità più prosaica: la Siria è troppo debole per combattere, troppo orgogliosa per concedere formalmente, e troppo disperata per gli aiuti alla ricostruzione per sacrificarsi sulla collina del Golan.
Questa non è una storia di tradimento o di alleanza. È una storia di accumulazione — di settant’anni in cui topografia, acqua, logica militare e fatto compiuto si sono calcificati in permanenza. La presa israeliana di ulteriori zone cuscinetto, l’armamento clandestino delle milizie druse, la distruzione degli arsenali siriani: tutto è avvenuto senza resistenza significativa perché Damasco sapeva che resistere avrebbe invitato ritorsioni che non avrebbe potuto sopportare. Ciò che resta è una coreografia accurata: Damasco rivendica la sovranità alle Nazioni Unite per preservare la legittimità interna, mentre nella pratica privilegia la sopravvivenza economica rispetto al recupero territoriale.
I forti fanno ciò che possono; i deboli subiscono ciò che devono. La mappa, nel suo silenzio, ha detto l’unica verità che l’esaurimento consente.



