Fuga dalla Libia

Mondo

TRIPOLI 1967- 2007 : Quaranta anni dall’esodo degli ebrei dalla Libia.
Yoram Ortona, consigliere della Comunità Ebraica
di Milano e dell’UCEI, ricorda quelle tragiche giornate
durante l’ultimo pogrom in Libia.

Con il canto del moazzim, all’alba, inizia a Tripoli, la giornata del 5 giugno 1967. Ricordo, era un lunedì. Sotto un limpido cielo azzurro, lungo lo skyline della città, spiccavano verso l’alto i ciuffi di alte palme verdeggianti. Percorrendo il lungomare, la brezza marina che si respirava era molto intensa, e così anche il profumo degli oleandri….

Papà era intento a farsi la barba, ascoltando le ultime notizie che giungevano dal Medio Oriente. Una delle sue abitudini era appunto quella di sintonizzarsi con il transistor sulle frequenze della radio italiana e della BBC. Il giornalismo era una delle sue passioni, e non era stato un caso che a soli 23 anni, nel 1945, sotto il Mandato Britannico, fu nominato direttore del Corriere di Tripoli.

Mia madre, in cucina, era dedita a preparare la colazione: caffè e latte, pezzi di pane, che per tradizione, venivano abbrustoliti sul fuoco e spalmati con burro e marmellata d’arance.

Come tutte le mattine, mi avviai verso scuola in bicicletta, una “Graziella” di colore blu che mi era stata regalata per il mio compleanno. Quel giorno dovevo sostenere il tema d’italiano per la licenza media. Avevo tredici anni e mezzo e quell’estate avrei dovuto celebrare anche il mio bar-mitzvà.

Papà era appena giunto in ufficio, allora dirigeva uno studio notarile. Mia madre accompagnò i miei fratellini più piccoli all’asilo, dalle suore francescane. Verso le ore dieci, a Tripoli, l’atmosfera diventò improvvisamente esplosiva.
Alla scuola Dante Alighieri, la stessa dalla quale mio padre fu cacciato a 16 anni in seguito alle leggi razziali, le lezioni vennero sospese e così anche gli esami. Il preside e il corpo docente invitarono gli studenti ad abbandonare la scuola e far rientro immediatamente nelle proprie case.

Insieme ad altri compagni lasciammo l’edificio scolastico e, attraversando le vie del centro, mi ritrovai in mezzo ai disordini. Una folla immensa di dimostranti, costituita da giovinastri, donne e uomini, con mazze di ferro e corpi contundenti, avevano dato inizio al saccheggio e all’incendio dei negozi e delle case degli ebrei. Gli slogan che venivano scanditi contro quei “cani di ebrei” non si contavano, e così quelli contro Israele, l’entità sionista, e naturalmente contro l’America. Era cominciata la caccia all’ebreo!

Mi feci coraggio, prendendo le strade più brevi, per raggiungere velocemente il portone di casa di uno zio.
Salii su di corsa, impaurito e scioccato per aver assistito in prima persona a scene di brutale violenza antisemita, e finalmente in pochi minuti raggiunsi il mio primo rifugio.

Zio Lillo era molto osservante: lo salutai mentre stava pregando con indosso il talled e i tefillin, raccolto insieme a tutta la sua famiglia. Chiamai casa per tranquillizzare mia madre. Le ore successive diventarono sempre più drammatiche; qualcuno tentò di sfondare il portone d’ingresso, fortunatamente senza riuscirci, e per paura decidemmo di fuggire sul terrazzo. Il cielo aveva perso il suo colore azzurro e in poche ore si era trasformato in un color grigio piombo: Tripoli era sotto un’incendio devastante che si stava estendendo a macchia d’olio; ricordo l’odore acre del bruciato, una sensazione che aveva dell’incredibile. Le urla parevano non voler cessare, ti entravano dentro le orecchie creando una sensazione di insicurezza e di profonda angoscia.

Mia madre era terrorizzata, da sola a casa, papà isolato nel suo ufficio, i miei fratellini all’asilo, la nostra famiglia divisa in quattro parti diverse della città. E’ da quel momento che presi cognizione del pericolo e della tragedia che si stava abbattendo su tutti noi.

Attesi con ansia l’ora del coprifuoco. Verso le sette di sera, papà mi chiamò per dirmi di tenermi pronto, che di lì a pochi minuti mi sarebbe passato a prendere. Quindi, a passo molto lento, in auto, con alla guida un suo collaboratore berbero, percorrendo le vie della città, in mezzo agli ultimi residuati di dimostranti, ci recammo verso l’asilo delle suore francescane alla Dhara, un quartiere periferico.

Qui l’atmosfera era relativamente più calma. Mohammed, la persona che quel giorno ci aveva gentilmente fatto da autista, scese giù e suonò il campanello dell’asilo. Una suora senza aprire il portone chiese chi fosse e lui rispose: “sono venuto a prendere i figli dell’avv. Ortona”. La suora, in segno quasi di omertà, replicò con voce ferma che non vi erano bambini di nome Ortona; immediatamente dopo, scese dall’auto anche papà, e dopo essersi fatto riconoscere, ritirò il mio fratellino e la mia sorellina. Di lì raggiungemmo l’abitazione dove ci attendeva mia madre. La nostra famiglia era finalmente di nuovo riunita sotto lo stesso tetto. Da quel momento rimanemmo asserragliati in casa per ben 12 giorni, con le persiane chiuse, la luce elettrica accesa anche nelle ore diurne.

Il terrore, l’ansia, il nervosismo erano presenti in tutti noi, grandi e piccoli. La nostra vita stava cambiando rapidamente e lo sarebbe stato sempre di più nei giorni e nelle settimane successive.
Papà che ne aveva viste di tutti i colori durante l’ultima guerra mondiale, con molto coraggio ogni mattina usciva molto presto per fare un po’ di spesa: del pane, delle uova, dell’insalata e le immancabili sigarette. Non erano certo giornate da cous-cous.

L’unica nota confortante in quei terribili giorni erano i telegiornali della RAI che dalla viva voce di Arrigo Levi annunciavano la vittoria di Israele sugli eserciti arabi. Eravamo ovviamente felici dell’esito
della guerra, ma non altrettanto per le nostre condizioni di vita quotidiana. I giorni e le notti erano interminabili e man mano che passava il tempo non se ne intravedeva la fine e soprattutto l’esito.

Eravamo cittadini italiani da generazioni. Mio nonno Federico aveva partecipato alla prima guerra mondiale sul Piave e fu uno dei pochi italiani di Libia che non si iscrisse al partito fascista, mentre mio padre per la sua attività di giornalista fu decorato con l’onoreficenza di Cavaliere al merito della Repubblica Italiana. E’ forse anche per questo che l’Ambasciata Italiana ci mise sotto protezione e, dopo non poche difficoltà, ottenemmo il visto d’uscita e quattro posti, non cinque, su un volo Alitalia.

Arrivò così il sospirato 17 giugno: era shabbat e faceva molto caldo; il ghibli aveva avvolto Tripoli in una cappa tremenda e verso le tre del pomeriggio, sotto un sole cocente, scortati da una jeep della polizia, dopo una breve sosta al terminal dell’Alitalia per munirci del biglietto aereo, ci dirigemmmo verso l’aeroporto di Castel Benito.

Ricordo quel lungo viale ombroso immerso in una foresta di eucalipti; la tensione e la paura erano ancora forti, più del caldo temevamo il controllo alla dogana. Infatti, una volta giunti lì, venimmo divisi uomini da una parte e donne dall’altra. Avevamo due sole valigie con della biancheria intima e poco altro, 30 sterline libiche in tutto. Mia madre fu perquisita e le furono sequestrati anche quei pochi gioielli che aveva addosso. Era ormai quasi il tramonto, non vedevamo l’ora di raggiungere la scaletta del “caravelle”. Mio padre si tenne sulle ginocchia la mia sorellina più piccola. Non una parola ma solo sguardi e un velo di profonda tristezza. Una volta decollati, stanchi e sfibrati, dopo qualche ora raggiungemmo le luci abbaglianti dell’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino.

Tra i cartelloni pubblicitari dell’aerostazione, ricordo, ne spiccava uno molto luminoso su tutti, con la cupola dorata della moschea di Omar e il Muro del pianto con la scritta a caratteri cubitali: VISITATE ISRAELE, GERUSALEMME D’ORO. Finalmente potevo pronunciare il nome di quel paese. Avevamo raggiunto la salvezza.

A distanza di quaranta anni da quel tragico avvenimento, se oggi sono qui a raccontarlo, lo devo al coraggio e all’amore dei miei genitori che ci portarono in salvo ed ebbero la forza di ricominciare un’altra vita.

La stessa sorte toccò a centinaia e centinaia di famiglie ebraiche che furono costrette ad abbandonare anch’esse il paese. Non fu così per 17 persone, due intere famiglie che furono trucidate e i loro corpi gettati in una fornace fuori Tripoli, la famiglia Luzon e la famiglia Raccah che in conclusione di questa mia testimonianza, sento il dovere di ricordare.