Manifestazione per due popoli al Teatro Franco Parenti: non “contro”, ma “per”

Italia

di Sofia Tranchina

Mentre le piazze italiane si dividono e si antagonizzano, venerdì e sabato 6 e 7 giugno sono andate in scena due manifestazioni molto diverse seppur legate dallo stesso nodo: la questione israelo-palestinese. A Roma, la protesta organizzata da forze filo-palestinesi, un atto di accusa contro Netanyahu, contro Israele, e contro l’Occidente che tace. In alcuni casi, purtroppo, anche contro gli ebrei in quanto tali o gli israeliani in quanto nati in Israele.

A Milano, invece, al Teatro Franco Parenti, una manifestazione diversa da quanto c’è stato finora, un innovativo tentativo di parlare con e non contro: si è provato a costruire un ponte tra due popoli, due memorie, due verità.

L’iniziativa è arrivata dopo il rifiuto di PD, AVS e M5S di condannare Hamas come movimento terroristico nella manifestazione di Roma, e di prendere posizione contro l’antisemitismo che ancora cova sotto le ceneri dell’antisionismo militante.

Il 7 gennaio 2015, quando gli islamisti di al-Qaida hanno assassinato dodici francesi presso la sede di Charlie Hebdo, il mondo occidentale si unì dietro il semplice motto Je suis Charlie. Il 7 ottobre 2023, quando gli islamisti di Hamas hanno assassinato oltre milleduecento israeliani, quello stesso mondo ha taciuto. Sono mancate manifestazioni pubbliche e grandi performance di solidarietà. Invece, si è cominciato da subito ad elencare le colpe di Israele, piangendo preventivamente le vittime gazawe che di lì a poco avrebbe prodotto la guerra.

Nel disordine culturale, semantico, fattuale e interpretativo che ha accompagnato la divulgazione sulla guerra in corso, in Italia la società si è spaccata tra chi urla “sionisti complici” e chi risponde con “terroristi palestinesi”. Chi prova a sottrarsi alla tifoseria calcistica cercando un compromesso o un dialogo, viene attaccato da una parte e dall’altra.

È per questo che la manifestazione di Milano, pur tra mille limiti, segna una svolta. È il tentativo di uscire dalla logica del tifo applicata alla geopolitica. È il gesto, finalmente, di chi capisce che essere amici di un popolo non significa essere ciechi davanti ai suoi errori. E che essere giusti significa onorare tutte le vittime.

La Brigata Ebraica e l’Associazione Milanese Pro Israele, dal canto loro, hanno organizzato una contromanifestazione davanti al teatro. Secondo Davide Romano, la priorità non è condannare Israele, ma esercitare pressione su Hamas. E si sono opposti alla presenza di Carlo Calenda, troppo critico verso Israele.

Renzi: “Il fanatismo è morte, il compromesso è vita”

Matteo Renzi

È stato Matteo Renzi, leader di Italia Viva, ad aprire la manifestazione. Citando lo scrittore israeliano Amos Oz — “il fanatismo è morte, il compromesso è vita” — Renzi ha dato il tono a un incontro che ha voluto sfidare la polarizzazione imperante: «Sventoliamo insieme le bandiere di Israele e Palestina contro chi brucia quella dell’ascolto».

Nel suo discorso, Renzi ha anche criticato l’attuale governo italiano per una carente visione internazionale: la politica estera non può «seguire i sondaggi e dire quello che la gente vuole sentirsi dire», perché «più che le curve di Instagram, deve affrontare i tornanti della storia». E ha rilanciato l’urgenza di una pace non perfetta, ma necessaria, fondata su alcuni punti fermi: il diritto di Israele a esistere e difendersi, la necessità di riconoscere uno Stato palestinese libero e di garantire ai gazawi una vita degna, la liberazione di Gaza dal regime di Hamas, e il rifiuto del boicottaggio delle università e dei luoghi di dialogo.

Non è mancata la critica al premier israeliano: «Non condividiamo la strategia di Netanyahu», perché non si sradica Hamas con le bombe, si seminano solo nuove generazioni di odio. E a chi lo critica di mettere sullo stesso piano i terroristi di Hamas e il governo democratico di Netanyahu, Renzi ha risposto lucidamente: pretendere che Netanyahu rispetti il diritto umanitario a Gaza è la prova che non lo si mette sullo stesso piano di Hamas, dal quale non si pretende di sapere né cosa sia il diritto né cosa sia l’umanità.

L’ex ostaggio Aviva Siegel per la pace

A destra, l’ex ostaggio Aviva Siegel

Dopo l’intervento di Matteo Renzi, è salita sul palco Aviva Siegel, sopravvissuta al sequestro da parte di Hamas durante l’attacco del 7 ottobre 2023 al Kibbutz Kfar Aza, nel sud di Israele. Con parole semplici ma potenti, ha raccontato la prigionia vissuta insieme al marito Keith, il terrore dei giorni passati nei tunnel di Gaza e la scelta, oggi, di parlare non solo per sé, ma per tutti gli ostaggi che ancora non sono tornati a casa.

Aviva è rimasta ostaggio per 51 giorni. Ha sofferto la fame, è stata maltrattata, privata di tutto, costretta a sopravvivere in condizioni disumane. Suo marito è stato liberato dopo 484 giorni, ha subito torture, percosse, minacce, e la lunga reclusione nei tunnel sotterranei. Ma nonostante l’orrore, oggi entrambi si battono per la pace. Il suo messaggio non è di vendetta, ma di speranza: «Siamo pacifisti, vogliamo che la guerra finisca e che nessuno soffra. Pensate che sia giusto avere una guerra così terribile nel 2025?».

Le sue parole sono risuonate con forza in sala: «Tutti mi avete sentita. Voglio che la guerra finisca, voglio che le brave persone a Gaza abbiano una buona vita, e che i nostri nipoti siano sicuri.»

Infine ha ringraziato i presenti «per aver usato questa opportunità di schierarci insieme contro la guerra, per portare avanti i diritti umani e garantire un futuro migliore ai nostri nipoti.»

Un intervento che ha ricordato a tutti che la pace è una scelta.

Hamza Howidy: basta romanticizzare la morte

Hamza Howidy

Collegato in video dalla Germania, l’attivista gazawi Hamza Howidy — da anni impegnato per la pace israelo-palestinese — ha portato una voce lucida e struggente. I suoi interventi sono sempre volti a rompere il silenzio ancora imposto ai palestinesi moderati: «Quello che Hamas ha fatto il 7 ottobre non è a nome nostro. Prego perché tutti gli ostaggi tornino a casa». Una premessa netta, necessaria, per non lasciare spazio a equivoci e accuse di faziosità.

Howidy ha poi condiviso una storia personale: un amico d’infanzia, con cui è cresciuto, ha giocato e ha condiviso pasti, è di recente morto sotto le macerie a Gaza. «Non lo meritava. Come lui, tanti altri». In quelle parole, il dolore di un’intera popolazione — «morti, feriti, dispersi, affamati e assetati» — dimenticata da troppe piazze, ridotta a slogan o sacrificata sull’altare dell’ideologia.

La sua denuncia è stata puntuale: «Questa non è più una guerra di precisione. È una guerra che smantella la vita civile, che rende Gaza inabitabile. E non c’è nemmeno un piano per il giorno dopo». A questo si aggiunge la degenerazione interna: le proteste contro Hamas stanno portando alla ribalta figure compromesse, come ex membri di al-Qaida.

Ma la critica più dura Howidy l’ha riservata a una certa retorica occidentale: «mentre si diffonde una venerazione criminale per Sinwar e Obeida, anche molti movimenti propalestinesi in Europa sono colpevoli di romanticizzare la rivoluzione, come se la vita dei palestinesi fosse astratta. Ma la gente di Gaza è stufa di questi slogan».

Un discorso coraggioso, che rifiuta sia la complicità con il terrorismo sia la retorica della morte, restituendo valore alla vita, a tutte le vite.

Mentana: no alla sete di vendetta

È stato un intervento netto, senza infingimenti, quello di Enrico Mentana. Il giornalista ha dato voce a ciò che molti “amici di Israele” non osano dire pubblicamente: che anche le guerre iniziate per legittima difesa possono degenerare, e quella condotta oggi da Israele a Gaza ha superato il limite morale. «Anche la guerra più giusta si deve fermare davanti agli affamati», ha detto Mentana, denunciando apertamente i «crimini di guerra attribuibili al governo Netanyahu». Il blocco degli aiuti umanitari, le sofferenze imposte ai civili, la distruzione sistematica di Gaza: «Israele non ha più la sete di giustizia che aveva all’inizio. Ora ha sete di vendetta».

Parole dure, ma pronunciate — ha chiarito — da amico di Israele, non da suo nemico. «Abbiamo il dovere di aiutare Israele a uscire da questo sortilegio. Così come abbiamo il dovere di aiutare i gazawi a uscire da questa trappola». Nessuna equidistanza, ma un doppio atto di responsabilità verso due popoli imprigionati in un conflitto senza uscita.

Mentana non ha risparmiato critiche all’inazione dell’Occidente: «L’Europa guarda e non fa nulla». E ha lanciato una stoccata all’ONU: «Com’è possibile che abbia meno potere del Papa e non riesca a imporre la pace?»

Della Vedova: nessun alibi per l’antisemitismo

A prendere la parola è stato anche Benedetto Della Vedova, segretario nazionale di +Europa, con un intervento chiaro, che ha tenuto insieme fermezza politica e sensibilità civile. «Noi che abbiamo sempre sostenuto Israele, chiediamo a Israele di fermarsi», ha esordito, ribadendo che il regime islamico in Iran, Hamas e lo slogan ‘dal fiume al mare’ sono terribili, ma che la risposta non deve essere l’occupazione militare di Gaza.

Ha criticato la privatizzazione degli aiuti umanitari, riferendosi ai recenti cambiamenti nella loro distribuzione: «Gli aiuti non vanno privatizzati. Devono essere gestiti dalle ONG».

Infine, Della Vedova ha parlato anche da cittadino europeo, rivolgendosi direttamente alla comunità ebraica: «Quando un ebreo, in quanto ebreo, si sente minacciato in Europa, l’Europa perde un pezzo della sua anima». E ha avvertito: per quanto si critichi l’operato di Netanyahu, questo non può e non deve mai essere un alibi per l’antisemitismo.

Delrio: Israele non è Netanyahu

Graziano Delrio

Graziano Delrio, esponente del Partito Democratico con studi in Israele alle spalle, ha portato al pubblico la sua esperienza: «Israele oggi è un’altra cosa rispetto a quella che ho conosciuto», ha esordito. Il 7 ottobre non è stato solo un attacco terroristico, ma un vero pogrom, un evento che ha trasformato profondamente la società israeliana e risvegliato fantasmi terribili. Tuttavia, «Pensare che tutta la società israeliana sia compatta attorno a Netanyahu è sbagliato. Da anni, centinaia di migliaia di cittadini israeliani protestano ogni sabato contro il suo governo e contro i fanatici religiosi che alimentano la guerra».

La condanna di Hamas è stata altrettanto chiara: «Hamas è il problema, non la soluzione», non libera gli ostaggi, non cede il potere, non fa compromessi per il bene dei gazawi. «Hamas si serve della causa palestinese, non la serve».

E ha lanciato un appello per aiutare i due popoli «ostaggio dei fanatici» a liberarsene: «Israele sarà salvato dalla sua forza e dalla sua rettitudine, diceva Ben Gurion. Ma oggi non vediamo rettitudine in quello che sta succedendo».

Picierno: “Due popoli, due stati” non può essere solo una formula

Con un discorso appassionato, la vicepresidente del Parlamento Europeo Pina Picierno ha preso la parola cercando di andare oltre i principi condivisi per invocare azioni più concrete.

Dobbiamo garantire subito la liberazione degli ostaggi, il cessate il fuoco, e risollevare la popolazione civile dall’inferno che sta vivendo, ma anche di opporci in Europa ad ambiguità e cedimenti, ha spiegato: «C’è stato chi ha iniziato a vedere in Hamas non solo un’organizzazione terroristica, ma una forma di resistenza», ricorda indignata, e «Dobbiamo denunciare chi confonde i governi con gli stati, gli stati con i popoli, e i popoli con la razza. Quel termine sta tornando maledettamente in voga».

La formula “due popoli, due stati” non può essere solo una formula buona per salvare la coscienza: vanno sostenuti concretamente coloro che, in entrambi i popoli, lottano «contro i fanatici», ovvero rafforzare le voci sia delle forze civili israeliane che si oppongono al governo Netanyahu, sia del popolo palestinese che tenta di dissentire contro il centro del terrore rappresentato da Hamas.

Fiano: una voce dalla sinistra ebraica

È stato un intervento intenso, emotivamente potente e politicamente netto quello di Emanuele Fiano, già parlamentare del Partito Democratico e presidente di Sinistra per Israele.

«Chi ha cuore e testa non può rimanere indifferente alle immagini del 7 ottobre: donne violentate, bambini bruciati, teste mozzate. E non può restare indifferente neppure davanti alle immagini di Gaza, all’assalto ai forni per il pane, alle migliaia di civili morti», ha esordito. Nessun dolore cancella l’altro. Nessuna vittima è di troppo. Ed è sbagliato ridurre il conflitto a una semplice dinamica tra chi ha ragione e chi ha torto, perché «in quella terra si scontrano due diritti».

Poi l’attacco all’Unione Europea, colpevole di aver abbandonato ogni iniziativa diplomatica concreta da oltre vent’anni: «Avete mai sentito una proposta europea seria per risolvere questo conflitto?», ha chiesto.

La parte più vibrante del suo intervento è stata la lettura di una durissima lettera scritta da Dan Meridor, figura storica della destra israeliana, già ministro nei governi Shamir, Netanyahu e Sharon. Un atto d’accusa inequivocabile contro l’attuale premier israeliano e i 68 parlamentari che lo sostengono, il cui succo è: avete sbagliato tutto, la valutazione della minaccia, la risposta militare, la preparazione del dopo Hamas. Avete tradito il codice etico dell’esercito israeliano, che impone di mantenere un volto umano anche in guerra.

Meridor — letto da Fiano — ha denunciato la deriva morale e strategica di una guerra condotta senza uno scopo chiaro, senza un piano politico, senza rispetto per i civili, e ha ricordato che persino gli amici storici di Israele gli hanno voltato le spalle. Il testo non ha risparmiato nessuno: Netanyahu non è stato eletto direttamente dal popolo. È lì perché 68 parlamentari gli permettono di esserci. La responsabilità è collettiva.

Fiano ha chiuso con una nota di speranza per il futuro: Israele non è finito. Israele non è solo Netanyahu. È una democrazia, dove il dissenso è possibile. E i palestinesi non sono solo Hamas. Anche lì, c’è chi lotta per la libertà. E ha lanciato un appello alla politica, come sogno e come impegno concreto: oggi dobbiamo fermare la guerra, portare aiuti a Gaza, liberare gli ostaggi, combattere l’antisemitismo e costruire, con fatica, la pace. Due popoli, due stati, un destino comune. Non abbiamo alternative.

Calenda: Chi ama Israele oggi deve avere il coraggio di dire basta

Carlo Calenda

A chiudere la manifestazione per la pace tra israeliani e palestinesi è stato Carlo Calenda, leader di Azione, con un intervento politico senza ambiguità. Il suo messaggio è stato chiaro: l’amicizia verso Israele non può tradursi in silenzio, e l’antisionismo che si traveste da solidarietà ai palestinesi è troppo spesso solo antisemitismo mascherato, perché l’antisionista «è uno che vuole distruggere lo Stato di Israele». Ha poi citato il recente episodio milanese di una vetrina con scritto “no israeliani”: «Il passaggio mentale a ‘no ebrei’ è già stato fatto, dentro la testa».

Ma Calenda non ha risparmiato Israele. Proprio perché Israele è una democrazia, «è a noi — amici di Israele — che spetta il dovere di dire basta». E quel “basta”, ha insistito, non è un generico auspicio di pace, ma un «rifiuto dell’involuzione democratica che sta colpendo Israele».

Con un tono acceso, ha rigettato l’idea di una presunta equidistanza: «Hamas sequestra gli aiuti, certo che lo fa. Hamas è un’organizzazione terroristica, nemica dell’Occidente», ma così come non ha aspettative da Hamas, le ha da Israele, uno Stato a cui siamo legati, che «deve agire dentro il diritto internazionale» e non con la logica dei suoi nemici.

Calenda ha anche puntato il dito contro Netanyahu, accusandolo di prolungare il conflitto per restare al potere: «Lo sanno tutti, lo dicono anche gli israeliani. Questa destra al governo non porterà mai al riconoscimento dello Stato palestinese».

Infine, ha denunciato l’ipocrisia italiana: «Non esiste in Italia un solo spazio pubblico dove si possano esporre insieme la bandiera israeliana e quella palestinese», e questo non è pacifismo, è negare il diritto all’esistenza del popolo ebraico.

Il suo messaggio conclusivo è stato un appello alla coerenza, alla giustizia e al coraggio: «Israele ha il diritto di esistere e di difendersi. Ma deve farlo secondo il diritto internazionale, non secondo il codice dei terroristi di Hamas». E noi abbiamo il dovere di mettere insieme due popoli, due bandiere, e costruire una pace reale.

Pace non è una parola neutra. È una parola esigente, che impone responsabilità, autocritica, ascolto. E una pace, se vuole essere vera, non può essere ambigua.