Tsahal, lo scudo di David

Israele

di Aldo Baquis

Nel cuore della notte, l’intera brigata dei paracadutisti di Israele si è calata dal cielo. I militari, carichi fino all’inverosimile, hanno poi compiuto una marcia forzata di 20 chilometri. Quando oltre il 70 per cento di loro aveva raggiunto il punto concordato, è stato dato loro l’ordine di aprire il fuoco e di conquistare l’obiettivo prescelto. Una esercitazione che ha fatto scalpore in Israele, perché dagli anni Novanta, ai parà non era più stato richiesto niente di simile. Un segno -ha commentato qualcuno-, dei tempi che cambiano e del fatto che nel Medio Oriente in ebollizione l’esercito di Israele sente la necessità di dotarsi di nuove possibilità offensive: come dimostra anche la recente composizione di un nuovo Comando incaricato di coordinare e di gestire gli attacchi in profondità nel territorio nemico.

Sono passati sei anni dalla operazione in Libano (contro Hezbollah) e tre anni da quella contro Hamas, a Gaza. Tre anni di calma relativa -anche sul fronte del terrorismo -, che hanno consentito a Tsahal di concentrarsi negli addestramenti, nei rinnovamenti, e nei potenziamenti necessari di fronte al moltiplicarsi di minacce sui confini.

Il fattore Shalit

Per quanto concerne il morale dei combattenti, spicca la liberazione di Gilad Shalit, in cambio di oltre mille palestinesi reclusi per aver partecipato ad attentati o ad altri episodi della intifada armata. L’abbraccio dei familiari con lo smilzo caporale dei carristi ha rappresentato un messaggio implicito per tutti i militari: una conferma cioè che Israele -più di ogni altro Paese al mondo-, è disposto a fare anche l’impossibile pur di recuperare militari dispersi in azioni militari. Cosa che è, al tempo stesso, la sua forza e la sua debolezza.

La convinzione della propria scelta personale e della motivazione è oggi, nei campi di addestramento reclute, molto elevata: nelle unità di elite e nei corpi scelti, a cui accedono solo volontari, non tutte le richieste possono essere accolte. Il numero dei candidati è molto alto e per essere ammessi, occorre sgomitare, superare difficili selezioni, intestardirsi.

Il calo di arruolamenti

Eppure il futuro non è affatto roseo, perché complessivamente la percentuale degli arruolati è in calo costante: è appena del 50 per cento se si includono anche gli arabi israeliani (che sono di norma esentati). Se si considerano solo gli ebrei, la percentuale di arruolamento è del 67 per cento. La tendenza è netta: nel 1990 si arruolavano il 75 per cento dei giovani ebrei (maschi e femmine); nel 2020 lo faranno solo 64 per cento.

Fra gli ebrei esentati dal servizio militare figurano gli ortodossi (13 per cento). Ad essi si aggiungono quanti soffrono di problemi fisici o mentali (sei per cento). Fra le ragazze, il numero di quante dichiarano di essere osservanti è pure in costante aumento: anch’esse hanno diritto alla esenzione.

Nelle unità combattenti, spicca comunque la presenza di nuovi immigrati (dalla Russia o dall’Etiopia), dei giovani dei kibbutzim, nonché di studenti dei collegi nazional-religiosi i cui rabbini inculcano sistematicamente nelle parole d’ordine l’invito a diventare l’avanguardia del Paese. In tutti i campi, anche nelle prime linee dell’esercito.

la componente religiosa Il fenomeno ha dello stupefacente, a sette anni dal ritiro da Gaza che comportò l’espulsione dalla Striscia di ottomila coloni, per lo più nazional-religiosi. Allora si parlò di una spaccatura fra il sionismo religioso e le strutture militari. Invece il trauma è stato superato e adesso fra gli ufficiali molti portano orgogliosamente in testa la kippà e vantano nella loro biografia un’educazione formale in collegi rabbinici. Su questo fronte i responsabili militari hanno dovuto dare prova di elasticità. Perché la nuova composizione demografica delle truppe comporta difficoltà di vario genere. In Cisgiordania, quando all’esercito viene ordinato di sgomberare avamposti, talvolta soldati religiosi non se le sentono. O in casi estremi, avvertono addirittura gli abitanti degli avamposti dell’incombenza di uno sgombero. Inoltre la presenza di soldati religiosi comporta frizioni nelle basi dove è più marcata la presenza di soldatesse, alle quali l’esercito da anni si sforza peraltro di garantire un profilo sempre più marcato (e quest’anno si sono aggiunte cinque nuove pilote da combattimento).

Non tutti i militari religiosi sono disposti ad addestrarsi con istruttrici, e non tutti sono disposti a partecipare a cerimonie in cui si esibiscano donne-soldato. Ai comandanti, di volta in volta, viene richiesto di dare prova della massima diplomazia.

Esercitazioni serrate

Intanto le esercitazioni si susseguono a ritmo serrato. La sensazione -vista dall’interno di Tsahal-, è che le capacità delle Forze Armate siano in questi ultimi anni molto migliorate. Lontano dagli occhi indiscreti dei mass media, unità di elite hanno compiuto operazioni  ardimentose in un numero crescente rispetto al passato: fra queste, la distruzione in Sudan di due convogli di armi destinati a Hamas, a Gaza.

L’instabilità regionale ha costretto i responsabili dell’esercito ad intraprendere progetti sempre più costosi: fra questi, la costruzione di una barriera lungo i 230 chilometri di confine con il Sinai egiziano, dove cresce la presenza di elementi terroristici legati ad al-Qaida, a Hamas e agli Hezbollah, con il sostegno di tribù beduine locali. E anche la costruzione di batterie di difesa aerea capaci di proteggere le città israeliane da attacchi missilistici. Sono sistemi senza eguali al mondo, straordinariamente costosi.

Il bilancio della Difesa

Ma le riserve economiche di Israele sono limitate, e gli scompensi si avvertono. Innanzi tutto nella protezione delle retrovie, su cui sono puntati complessivamente 200 mila razzi da Paesi vicini e lontani del Medio Oriente. Il Ministro della difesa Ehud Barak ha cercato di tranquillizzare l’opinione pubblica: “In qualsiasi scenario di guerra, ad esempio con l’Iran, non avremo 50 mila, né 5.000 e nemmeno 500 morti’’. Ma alcune settimane dopo, proprio il ministro delle retrovie Matan Vilnay (dello stesso partito di Barak) avrebbe dato in escandescenze alla Knesset nel constatare che ancora oggi buona parte della popolazione israeliana è alla mercè dei missili nemici.

Quasi due milioni di israeliani non dispongono né di un rifugio né di una stanza rafforzata nella propria abitazione; il 40 per cento della popolazione non ha maschere antigas; la loro distribuzione è avvenuta peraltro su una base puramente geografica, mentre la logica avrebbe voluto che la precedenza fosse data a chi abita nell’hinterland di Tel Aviv.  Proprio la capacità di resistenza delle retrovie -assieme alle capacità offensive di Tsahal-, sono una delle considerazioni prioritarie quando gli strateghi di Israele studiano l’opzione di un attacco alle installazioni nucleari in Iran. In questo contesto di ristrettezze economiche, anche le esercitazioni delle forze di terra potrebbero risentirne, forse fino a bloccarsi del tutto nei prossimi mesi.

Pianificare il cambiamento

Per i responsabili di Tsahal proprio la pianificazione è una delle sfide più importanti, in una Regione in perpetuo cambiamento. È lo scenario strategico ad essere cambiato. I tempi in cui l’esercito doveva prepararsi a confrontarsi con altri eserciti nazionali per sbaragliarli e conquistare il loro territorio sono ormai tramontati, forse per sempre. Dalle operazioni del 2006 (Libano) e 2009 (Gaza), Israele ha compreso che deve prepararsi in modo particolare a conflitti asimmetrici, ossia contro milizie che si fanno scudo di popolazioni civili. Alla luce del Rapporto Goldstone (il giudice che inoltrò alle Nazioni Unite un documento in cui sosteneva che Israele, come Hamas, si era macchiato di crimini di guerra a Gaza), Tsahal comprende che conflitti futuri dovranno concludersi e risolversi nell’arco di una manciata di giorni. Anche perché la comunità internazionale non darà ad Israele maggiore respiro. Inoltre va tenuto conto che il ventaglio di minacce che incombono su Israele è sempre più vasto ed include anche la possibilità di attacchi non convenzionali da elementi che non fanno parte di nessuna entità statale. Nel passaggio dall’età industriale all’età dell’informazione, il conflitto può anche assumere aspetti di cyber-war, guerra informatica. Sono anche là -nella Unità 8200 dell’Intelligence militare-, che vanno le intelligenze più brillanti dei giovani israeliani. Alla 8200, la stampa internazionale ha attribuito una parte di responsabilità nel virus Stuxnet che per mesi ha fatto impazzire le centrifughe del progetto nucleare iraniano. Ma è evidente che si tratta di un arma a doppio taglio: proprio Israele, un Paese molto sviluppato e computerizzato, potrebbe essere duramente colpito da armi simili.

Qualità dei comandanti

Un’ultima parola, sulla qualità dei comandanti. L’anno scorso la nomina di un nuovo Capo di Stato Maggiore (il candidato era il generale Yoav Galant), è stata accompagnata da una catena di intrighi ai piani alti del Ministero della Difesa, che ha visto contrapposti il Ministro della Difesa Ehud Barak e il Capo di Stato Maggiore uscente Gaby Ashkenazi. I due, secondo la stampa, avrebbero maturato una rivalità fortissima fino al punto quasi di non parlarsi più. Gli intrighi ebbero comunque parziale successo e la nomina di Galant (voluta da Barak), non passò. In sua vece fu scelto all’ultimo minuto il generale Benny Gantz, un personaggio considerato “al di fuori delle mischie’’.

In questi ultimi mesi una certa serenità è tornata nello Stato Maggiore delle forze armate: cosa che rincuora non poco la popolazione mentre le prime pagine dei giornali preannunciano la possibile imminenza di nuovi conflitti: con l’Iran o anche con la Siria se il presidente Bashar Assad tentasse la carta di un attacco ad Israele per rimescolare le carte della guerra civile che lacera il suo Paese.