Israele: luci e ombre dei primi 70 anni di un sogno diventato realtà

di Luciano Assin

Il 14 maggio 2018 ricorreranno 70 anni dalla creazione dello Stato d’Israele. Un avvenimento questo che ha segnato, e continua a segnare, in modo indelebile non solo la situazione politica del Medio Oriente, ma anche quella dei rapporti fra le super potenze negli anni della Guerra Fredda e, più recentemente, il rinnovato ruolo della Russia in uno scacchiere che sembrava fino a pochissimi anni fa ormai in mano all’Islam moderato.

Israele si può amare o odiare, ma è difficile rimanerne indifferenti, anche perché i mass media la mantengono costantemente all’ordine del giorno. Sentimenti a parte, mi sembra indiscutibile affermare che la scommessa del movimento Sionista e la rinascita ebraica nella terra dei padri sia riuscita contro tutte le previsioni. Israele è stato capace di svilupparsi in tutte le direzioni nonostante l’assoluta mancanza di materie prime e di giacimenti petroliferi.

Circondata da Paesi ostili è riuscito a creare uno Stato moderno, solido e democratico. Al di là delle numerose statistiche che coprono il campo economico, la più significativa è certamente quella stilata dall’ONU riguardante la qualità della vita. Israele si trova all’undicesimo posto, lasciandosi dietro l’Italia di molte lunghezze, e più precisamente al cinquantesimo.

Quali sono allora i segreti, o meglio i punti di forza, che stanno permettendo a questo piccolo Paese di  continuare per la sua strada nonostante la presenza di fardelli non indifferenti, come per esempio le enormi spese nel campo della difesa? Personalmente penso che i due settori che hanno permesso uno sviluppo così elevato e stupefacente si racchiudano nel binomio Assorbimento e Ricerca scientifica.

Nonostante i numerosi incidenti di percorso, talvolta basati su esplicite politiche governative, Israele ha vinto la scommessa dell’assorbimento ed è riuscito ad includere e metabolizzare al suo interno milioni di persone, di immigrati, costruendo così una società multietnica e multiculturale capace contemporaneamente sia di garantire le diverse identità culturali, sia di creare una nuova identità israeliana da zero. Non meno importanti sono le condizioni create dal Paese per permettere un continuo sviluppo scientifico e tecnologico che ha di fatto sopperito alla mancanza delle classiche risorse economiche. Non può essere un caso che moltissime delle innovazioni che ci accompagnano in tutti i campi, dall’irrigazione alla telefonia, dalla medicina all’informatica eccetera, siano state sviluppate in un lembo di terra così ristretto.

Ma sarebbe un pericolo per gli israeliani riposarsi sugli allori ed ignorare i suoi impacci e limiti ancora irrisolti. La pace con i palestinesi è uno dei tanti, forse meno sentito in questo momento dal Paese, ma sempre attuale e problematico. Il gap demografico fra israeliani ed arabi nel territorio che va dal Giordano fino alla zona costiera si va lentamente ma inesorabilmente restringendo, e questo metterà, in fin dei conti, i governanti israeliani di fronte a delle scelte di portata epica. Il nocciolo del conflitto fra israeliani e palestinesi è racchiuso in questi numeri, se lo stato vagheggiato da Herzl vorrà rimanere democratico e liberale dovrà per forza staccarsi dalla maggior parte dei territori della Cisgiordania.

Ma per quanto possa sembrare insolito la società israeliana ha ancora diversi problemi irrisolti che richiedono cure non meno urgenti. Il divario economico fra ricchi e poveri è uno dei più alti dell’OCSE.  Ma anche il costo della vita, i rapporto fra ebrei ed arabi israeliani, fra sefarditi ed ashkenaziti , fra ebrei laici ed ebrei ortodossi e fra centro del Paese e periferia continuano a rimanere all’ordine del giorno. Forse sono tutte queste contraddizioni e tutte queste tensioni a formare il collante che tiene unito Israele: se venissero a mancare c’è il reale rischio che lo Stato ebraico divenga un Paese come tutti gli altri, qualcosa a metà fra la Svizzera ed i Paesi scandinavi. In questo caso molti giornalisti rimarrebbero disoccupati e sarebbe un vero peccato visto che, già così, il mondo dell’informazione è in crisi.