beniamin Netanyahu, Reuven Rivlin e Benny Gantz

Israele: governo cercasi

Israele

di Avi Shalom
TEL AVIV – Israele, governo cercasi. Dopo due tornate elettorali – il 9 aprile la prima, il 17 settembre la seconda – i partiti non sembrano capaci di costituire un esecutivo che goda della fiducia di oltre metà della Knesset e non escludono di doversi presentare a un terzo appuntamento elettorale all’inizio del 2020. È la più grave crisi istituzionale dalla fondazione del Paese, che si sviluppa peraltro mentre si profila sempre più concreta la minaccia militare dell’Iran.

Non si tratta solo dei programmi nucleari di Teheran, di per sé già allarmanti alla luce di recenti dichiarazioni di generali iraniani secondo cui la distruzione di Israele non è più solo una aspirazione del regime khomeinista, ma è adesso “un progetto fattibile”. Anche se i leader europei (Macron in testa) preferiscono di norma guardare altrove, la penetrazione militare dell’Iran nel Vicino Oriente prosegue vigorosamente – sotto la regia del gen. Qassem Suleimani – in Libano, in Siria, nello Yemen, nella striscia di Gaza ed in Iraq da dove le forze iraniane sono adesso in grado di lanciare verso Israele missili da crociera.

Questo è stato il preoccupante scenario regionale offerto all’inizio di ottobre da Benyamin Netanyahu nella giornata di solenne apertura della Knesset. Il premier incaricato è tornato col pensiero ad altri Paesi democratici che furono paralizzati e distratti da una grave crisi politica in anni critici mentre i loro nemici mettevano alacremente a punto la loro macchina bellica. Netanyahu ha menzionato la Francia dei primi anni Trenta in cui si avvicendarono numerosi governi, mentre Hitler si affacciava sulla scena politica. La lezione da apprendere – ha aggiunto – è che in momenti talmente delicati, una leadership responsabile dovrebbe operare per la coesione nazionale e per un governo unitario.

A rendere più preoccupante ancora la situazione è giunta la apatia con cui l’amministrazione Trump ha seguito un duro attacco militare sferrato dall’Iran nei confronti di un importante giacimento petrolifero in Arabia Saudita. Poche settimane dopo Trump ha dato via libera ad una vasta operazione militare della Turchia a scapito dei curdi della Siria, che pure avevano coraggiosamente combattuto al fianco degli Usa contro lo Stato Islamico. Per la prima volta negli ultimi tre anni Netanyahu ha trovato necessario dissociarsi dal suo “grande amico” Trump: ha condannato l’”invasione turca” e ha promesso aiuti umanitari ai curdi. Un “accordo di difesa reciproca” fra Usa ed Israele – menzionato da Netanyahu prima delle elezioni – è stato velocemente archiviato. “In ogni caso Israele è determinato a difendersi sempre da solo, contro qualsiasi minaccia”, ha precisato. Adesso appare evidente perfino a Netanyahu che sul capriccioso presidente degli Stati Uniti  non bisogna contare eccessivamente.

L’Ipotesi unità nazionale

Sulla necessità di un governo di unità nazionale esiste peraltro un vasto consenso, a partire dal capo dello Stato Reuven Rivlin che dopo le elezioni del 17 settembre ha convocato Benny Gantz (leader del partito centrista Blu Bianco, che ha ottenuto 33 seggi sui 120 della Knesset) e Netanyahu che alla guida del Likud ne ha avuti 32. Rivlin ha proposto loro un governo di alternanza alla carica di premier, con una spartizione paritetica dei ministeri fra Blu Bianco ed il Likud.

Riferendosi implicitamente alla prospettiva che Netanyahu rischia di essere incriminato per i tre dossier in cui è sospettato di corruzione, frode ed abuso di ufficio, il Presidente ha menzionato la possibilità di un emendamento della legge sull’ ‘impedimento’ del premier. Essa prevede oggi la sua sostituzione automatica per 100 giorni qualora per motivi di salute il premier non fosse in grado di operare. Quel lasso di tempo, secondo Rivlin, può essere esteso. Al termine del periodo di ‘impedimento’ – anche di diversi mesi – il premier tornerebbe in carica. Tradotto in termini politici: se Netanyahu fosse incriminato, sarebbe sostituito nelle sue funzioni da Gantz, ma resterebbe formalmente primo ministro. Una volta chiusa la questione giudiziaria, riassumerebbe la carica di primo ministro.

Sulla carta, il premier incaricato Netanyahu ha accolto la formula di Rivlin. Ma ha anche voluto giocare d’astuzia. Ha fatto sottoscrivere a due partiti confessionali e ad una lista nazionalista un accordo in base al quale il Likud si presenta ‘in blocco’ assieme a loro a qualsiasi negoziato per la formazione di un governo. Come per magia, gli emissari del Likud hanno così informato la controparte di Blu Bianco che rappresentavano adesso non più gli scarni 32 deputati, bensì un manipolo di 55 onorevoli, quasi mezza Knesset. In ebraico si chiama: ‘Hocus Pokus’, ossia ‘Abracadabra’. L’espediente non è affatto piaciuto agli uomini di Gantz, che pure è favorevole ad un governo di unità nazionale col Likud. Ma il suo obiettivo è un esecutivo laico, centrista e snello. Netanyahu – col suo ‘patto di ferro’ con quelli che chiama ‘gli alleati naturali del Likud’ (parte dei quali insistono per la parziale annessione della Cisgiordania e lanciano proclami di carattere xenofobo) – vorrebbe spostare molto a destra l’asse politico di Israele. Malgrado che dalle elezioni il centrista Blu-Bianco sia emerso come il primo partito in ordine di grandezza e malgrado che il 55 per cento degli elettori si siano espressi contro la leadership di Netanyahu.

Che Rivlin, Netanyahu e Gantz siano tutti favorevoli ad un governo di unità nazionale non è dunque bastato a dare concretezza a quella formula. Da un lato, l’impossibilità sia per Blu Bianco sia per il Likud di formare una coalizione ristretta che abbia almeno 61 deputati alla Knesset; dall’altro la sfiducia reciproca fra i due leader. Rivlin, esasperato, ha parlato chiaro: ‘In assenza di una intesa, il Paese rischia di dover tornare al voto, per la terza volta, all’inizio del 2020’.

Per l’intero 2019, il lavoro dei ministeri è stato molto ridotto. In economia si attendono decisione drastiche, anche per l’approfondirsi del debito pubblico. Occorre prendere decisioni importanti, che l’attuale governo di transizione guidato da Netanyahu non può far passare alla Knesset. Anche la politica sociale del Likud mostra i suoi limiti. A luglio la uccisione da parte di un ufficiale di polizia di un adolescente ‘Falasha’ ha innescato estese manifestazioni della comunità degli ebrei originari dell’Etiopia, che si sentono discriminati in Israele e penalizzati da un razzismo latente. In passato avevano votato in massa per il Likud, mentre a settembre lo hanno punito. Inoltre per il partito di Netanyahu si è rivelata  controproducente la campagna di forte antagonismo nei confronti della minoranza araba: condotta fra l’altro con la richiesta insistente di dislocare telecamere nelle località arabe “per impedire brogli elettorali” e con un messaggio ‘twitter’ – poi ritirato – in cui si accusavano gli arabi di Israele di voler massacrare gli ebrei.

I partiti arabi

Trovatisi con le spalle al muro, i partiti arabi hanno messo da parte i dissensi e la loro Lista unita, con 13 seggi, è il terzo partito alla Knesset in ordine di grandezza. Adesso vuole influenzare l’ordine del giorno nel Paese. Ad ottobre, ad esempio, la minoranza araba si è mobilitata per denunciare la “sistematica negligenza” che a suo parere caratterizza la polizia israeliana quando deve cimentarsi con il crimine nel settore arabo. Se lo Stato esiste – hanno detto i parlamentari arabi – che si manifesti, requisendo nelle località araba le quantità di armi illegali che vi sono nascoste e debellando i clan malavitosi.

L’Iran

Lo stallo politico fra il Likud e Blu Bianco. L’incertezza sui dossier di Netanyahu e sul suo futuro politico. L’economia in bilico. Le tensioni sociali che non trovano un interlocutore valido. Il problema di  Israele – ha scritto di recente con perspicacia un analista del New York Times – è che da un lato si tratta di un Paese di larghi orizzonti, con interessi globali da Grande Potenza, ma che dall’altro soffre per una leadership politica da piccola città, con acerrime inimicizie personali che ricordano un po’ gli ‘shtetl’, le piccola comunità ebraiche dell’Europa dell’est di oltre un secolo fa.