Gerusalemme: Laurea al cardinale Martini

Israele

L’Università Ebraica di Gerusalemme ha conferito al cardinale emerito Carlo Maria Martini la Laurea honoris causa in filosofia. Il prestigioso riconoscimento è stato assegnato all’ex-arcivescovo di Milano, che dal 2002 vive a Gerusalemme, per il particolare ruolo da lui svolto per lo sviluppo del dialogo fra ebrei e cristiani.

Queste sono le parole con cui il prelato ha accolto il titolo di dottore: “Ricevo questo titolo con molto piacere per i miei legami trentennali con l’Università Ebraica. Da quando ho lasciato l’incarico di arcivescovo di Milano vivo a Gerusalemme e in questa città amata sento soprattutto il bisogno di pregare. La mia preghiera è una supplica per la pace. Il titolo che mi viene conferito oggi rappresenta per me un ulteriore incoraggiamento a continuare a pregare ‘Possa esservi pace dentro le tue mura, tranquillità nei tuoi palazzi’ (Salmo 122)”.

In occasione dell’assegnazione della laurea, il Cardinale ha tenuto una lectio sul tema “Filosofia e dialogo”.

Abbiamo chiesto al professor Paolo De Benedetti, docente di Giudaismo presso la Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale e che per lunga frequentazione col Cardinale meglio di ogni altro conosce la vera persona di Martini, di commentare questo evento che per noi riveste una valenza particolare.

Professore, che significato ha questo prestigioso riconoscimento?

Questo riconoscimento corona – e, stando alle sue parole, non conclude – tutto il percorso di Martini, tutta la sua tensione verso l’ebraismo. La scelta stessa di stabilirsi a Gerusalemme è come l’esigenza di una prossimità fisica con l’ebraismo e il popolo del Libro.

Le lauree accademiche vengono non infrequentemente concesse a personalità di alti livelli di sapere, ma in questo caso io la vedo come uno “scambio di doni” tra due autocoscienza culturali, teologiche e religiose, entrambe – nel pensiero di Martini – parte di un unico cammino predisposto da Dio, lo ‘ultimate concern’ secondo la citazione della lectio.

Quali sono le tematiche a cui l’Università, ossia la quintessenza del mondo culturale e filosofico ebraico, ha voluto dare il riconoscimento?

Il problema essenziale come visto da Martini è l’esigenza della Chiesa di affrontare e mettersi in ascolto dell’ebraismo. La Chiesa deve riconoscere quanti elementi il cristianesimo ha attinto e deve attingere dall’ebraismo.

L’autocoscienza della Chiesa non può non sopravvivere senza una profonda intimità con l’ebraismo. Il riconoscere che, come dice l’apostolo Paolo, “i doni di Dio (ossia la elezione di Israele) sono senza pentimento”. E poi, con le parole di Martini, “la posta in gioco non è semplicemente la continuazione vitale di un dialogo, bensì l’acquisizione della coscienza, nei cristiani, dei loro legami con il gregge di Abramo”. Martini riconosce la missione che Israele ha ricevuto come “regno di sacerdoti e popolo santo”: missione consistente non nel portare le genti entro l’ebraismo, ma nel portare il Dio di Israele alle genti, cosa che Israele ha fatto e fa tuttora.

Il tema della lectio è il dialogo.

Ogni dialogo per essere giustificato non ha lo scopo di convertire l’altro, ma di ‘come è bello stare insieme’: anzi parte proprio dall’incontro di due identità ben distinte. Non vi è niente di sentimentale, di abbracci superficiali che non fanno che appiattire le varie identità, e questo vale soprattutto per lo speciale rapporto ebrei-cristiani.

Perché parla di un rapporto speciale?

Va tenuto ben presente che nella visione di Martini (e anche mia) è fondamentale che il rapporto cristianesimo-ebraismo sia diverso da quello cristianesimo-altre religioni. Già una decina d’anni fa, durante il Sinodo diocesano di Milano, nella sezione ‘ecumenismo’, il problema dei rapporti con l’ebraismo lo trattammo separatamente da quello con le altre religioni, come un fatto a sé, per indicare il rapporto privilegiato e particolare di interdipendenza che vi è fra le due fedi.
Nella persona di Martini questa tensione nei riguardi dell’ebraismo e dei suoi valori è il primo passo verso quel dialogo inteso appunto come momento comune. Ed egli è consapevole che questo dialogo è molto più importante per i cristiani che non per gli ebrei, perché l’ebreo viene prima e quindi può vivere la sua alleanza senza quello che viene dopo, mentre il cristiano viene dopo, e quindi non può prescindere da ciò che è nato prima ed è sempre vivo.