Gaza: le due opzioni (entrambe pessime) secondo Michael Milshtein

Israele

di Davide Cucciati

Michael Milshtein è uno dei più lucidi e originali analisti israeliani del mondo arabo e palestinese. Colonnello in congedo, ha diretto per anni il Dipartimento per gli Affari Palestinesi nell’intelligence militare israeliana (Aman) e ha ricoperto il ruolo di consigliere per gli affari palestinesi presso il COGAT (Coordinator of Government Activities in the Territories).

Oggi è direttore del Palestinian Studies Forum presso il Moshe Dayan Center dell’Università di Tel Aviv e senior analyst all’Institute for Policy and Strategy dell’Università Reichman di Herzliya. Autore di tre libri in ebraico (tra cui The Green Revolution – The Social Profile of Hamas), ha pubblicato numerosi articoli su sicurezza, ideologia e memoria collettiva nel mondo palestinese. La sua tesi di dottorato è dedicata alla narrazione della Nakba nella memoria palestinese dal 1948 a oggi.

Nonostante i molteplici incarichi accademici e istituzionali, il dottor Milshtein si è dimostrato di grande cortesia e disponibilità nel rispondere alle nostre domande con profondità, chiarezza e spirito critico. La Redazione di Mosaico lo ha intervistato a quasi due anni dal massacro del 7 ottobre mentre Gaza è ancora teatro di una guerra incerta e il dibattito internazionale si concentra anche sulle possibili alternative future a Hamas.

 

Milshtein, con il suo consueto stile diretto e argomentato, mette in guardia contro le illusioni strategiche che da anni affliggono Israele: “Se il piano è solo quello, continuare la guerra senza visione, non potremo mai parlare di successo”.

Una volta ha scritto che Israele stava “giocando a scacchi con sé stesso” riguardo ad Hamas. Quasi due anni dopo il 7 ottobre, ritiene che questo approccio definisca ancora la strategia israeliana, soprattutto per quanto riguarda il futuro di Gaza? Molte proposte in Europa suggeriscono di ripristinare l’Autorità Nazionale Palestinese, eppure, come ha notato, l’Autorità Nazionale Palestinese non riesce nemmeno a controllare luoghi come Jenin o Nablus. Ci troviamo di fronte a un vicolo cieco strategico?

È una domanda molto importante. Sono un po’ frustrato, un po’ deluso, dal fatto che, a quasi due anni dal 7 ottobre 2023, sembriamo non aver davvero imparato molto di più su Hamas. Non abbiamo capito meglio questa organizzazione. È quasi sorprendente. Tutte le fantasie che guidano ancora le scelte dei decisori israeliani dimostrano che la conoscenza di Hamas è limitata. Per esempio, quando un decisore israeliano dice “aumentiamo la pressione militare, così Hamas diventerà più flessibile”, vuol dire che non hai capito nulla.

Hamas è un’organizzazione radicale, jihadista, pronta a suicidarsi pur di non alzare bandiera bianca. Anche il modo in cui molti ragionano in termini matematici, dicendo: “Abbiamo distrutto 22 o 23 battaglioni su 24, quindi siamo vicini alla vittoria”, rivela una profonda incomprensione. Hamas è molto flessibile, si adatta alle nuove condizioni molto in fretta. Non evacueranno Gaza per la pressione militare. In Israele, molti paragonano Hamas ai nazisti… ma non si rendono conto che se davvero prendi sul serio quel paragone, allora devi capire che questi, come i nazisti, combatteranno fino alla fine, sono pronti a suicidarsi, a uccidere il proprio popolo, le proprie famiglie, anche gli ostaggi. Non si arrenderanno. Purtroppo, le nostre conoscenze su Hamas riflettono più la nostra percezione che la realtà. È un grave malinteso, forse il più importante oggi in Medio Oriente, ma certamente non l’unico.

Riguardo alla questione dell’alternativa, cioè l’Autorità Nazionale Palestinese, dobbiamo essere molto onesti e realistici. Concordo con te: l’idea che l’ANP possa “dispiegare le sue forze a Gaza” come alternativa a Hamas è una completa illusione. È solo wishful thinking. Israele si trova ora a un bivio. Tutte le fantasie, la “visione di Trump”, o l’idea di convincere l’Egitto a entrare in Gaza sono appunto solo fantasie. Le opzioni reali sono due: la prima è un’occupazione totale della Striscia, se davvero si vuole sconfiggere Hamas fino in fondo. Ma questo significa stare lì a lungo, investire enormi risorse, prendersi cura di due milioni di palestinesi in un’area completamente distrutta, senza aiuti esterni. E anche dopo, non parleremmo di una vera “fine della guerra”, perché sono certo che Israele si ritroverebbe in una situazione simile a quella americana in Iraq: sarebbe un pantano, un’infinita palude di problemi. L’altra opzione è promuovere un accordo, accettando che Hamas resti a Gaza, seppur molto più debole rispetto a 23 mesi fa. Anche questa non è una bella opzione. Ma tra le due, è la meno peggiore. Perché l’occupazione totale sarebbe drammatica e disastrosa su ogni fronte: sicurezza, economia, politica, diplomazia.

Israele potrebbe accettare che Hamas rimanga al potere se, in cambio, ottenesse maggiore libertà operativa all’interno di Gaza e ottenesse il rilascio degli ostaggi presi il 7 ottobre? Ciò creerebbe stabilità o semplicemente prolungherebbe la crisi? Vede emergere una leadership alternativa credibile a Gaza?

Parliamo di un “deal”. È l’opzione più realistica per ottenere la liberazione dei rapiti. Questo slogan di alcuni politici, “se facciamo più pressione su Hamas, allora gli ostaggi verranno liberati”, non è serio. Non puoi allo stesso tempo promuovere una piena occupazione della Striscia e sperare di liberare i rapiti. Se Israele occupa tutta Gaza, Hamas li ucciderà. Sono abbastanza convinto che l’idea egiziana, o meglio, arabo-egiziana, di creare un consiglio locale (local council o local committee) per gestire Gaza sia implementabile. Formalmente, Hamas non farebbe parte di questo consiglio. Ma, detto francamente, dietro le quinte Hamas rimarrebbe comunque piuttosto potente. È importante assicurarsi che il controllo del Corridoio di Philadelphia (il confine tra Gaza e il Sinai) non resti in mano a Hamas. Potrebbe essere posto sotto controllo statunitense.

Sono anche convinto che potremmo adottare un modello simile a quello del Libano nel 2024, con un cessate il fuoco in cui Tzahal non staziona dentro Gaza, ma interviene ogni volta che viene identificata una violazione o una minaccia. È ciò che accade oggi in Libano, dove Tzahal colpisce quasi ogni giorno. Non c’è una soluzione magica per sradicare Hamas dalla mappa. Però, Hamas oggi ha certamente meno potere rispetto a due anni fa.

Israele dovrà comunque monitorare costantemente la situazione dentro Gaza, assicurandosi che Hamas non si riarmi. Quanto all’occupazione totale, il problema è che non abbiamo veri piani strategici dettagliati. Abbiamo molti slogan, questo sì. Ma ora Israele dovrebbe concentrarsi sul “recovery” e sulla pianificazione reale del futuro. Uno dei punti fissati da Netanyahu per il “day after” è stato: “Israele non controllerà Gaza. L’Autorità Palestinese non controllerà Gaza. E certamente nemmeno Hamas controllerà Gaza.” Quindi… chi lo controllerà? È un mistero. Nessuno sa chi sia questo attore misterioso. E devo ammettere che questo riflette un fatto molto chiaro: non esiste un piano. Ed è proprio per ciò che molti israeliani sono preoccupati. Perché sembra che l’unica cosa che il governo voglia sia continuare la guerra, fare mosse di tipo promozionale, ma non ci sia alcun livello strategico o politico reale. E questo è un problema. Perché se il piano è solo quello, continuare la guerra senza visione, non potremo mai parlare di successo.

Ha avvertito che gli analisti israeliani si affidano troppo alla tecnologia e mancano di profondità culturale e linguistica. Questa situazione è reversibile o Israele ha strutturalmente perso la capacità di comprendere veramente la regione?

Sono molto frustrato, perché ho parlato di questo problema per anni, anche da quando ero in Tzahal. Ma oggi non è solo un problema: è una vera crisi. Sempre meno ufficiali dell’intelligence e soldati parlano l’arabo. Non vogliono imparare nemmeno le basi culturali. Ma tu non potrai mai davvero capire l’altro, non potrai capire il mondo arabo, non potrai capire Hamas, se ti affidi a Google Translate, all’intelligenza artificiale o ad altri strumenti avanzati.

Serve conoscenza reale.

Bisognerebbe aumentare la comprensione del mondo arabo non solo nei servizi di sicurezza ma anche nella società israeliana nel suo complesso. Per esempio, prima del 7 ottobre, molti in Israele pensavano che Hamas e il mondo arabo pensassero come noi, che avessero la stessa percezione occidentale della vita, che volessero le stesse cose. Che fossero concentrati sulla vita quotidiana, sul benessere. Ma l’ideologia non la compri con i soldi. E oggi ci rendiamo conto che tutta quella percezione era profondamente sbagliata. Loro ci hanno capito molto bene, invece. Oggi in Israele molte persone parlano della lezione da imparare, delle cose da correggere e migliorare. Ma non sono così sicuro che si possa già dire che tutto sia chiaro, compreso fino in fondo.

Sull’etica del giornalismo: ci sono giornalisti indipendenti a Gaza oggi, o sono per lo più allineati con Hamas, sotto pressione o per necessità? Se lo sono, è giustificabile trattarli come combattenti, o ciò supererebbe una linea rossa morale?

È una domanda molto complicata. Voglio essere onesto: non conosco tutti i dettagli.

La maggior parte dei media a Gaza è, indubbiamente, affiliata con Hamas. Alcuni giornalisti sono davvero parte di Hamas. Per esempio, Anas al-Sharif veniva considerato un giornalista ma oggi sappiamo che era un membro dell’ala militare di Hamas, le Brigate al-Qassam.

Penso che se qualcuno è parte dell’ala militare di Hamas, allora è un nemico. Non importa se ha un tesserino da giornalista. Se lavora per Hamas, è ovvio che si possa colpire. Se invece è un vero giornalista, che non ha connessioni con Hamas, allora non c’è giustificazione per ucciderlo. Ma, lo ripeto, solo se davvero non c’è alcun legame.

Sfortunatamente, oggi a Gaza è una situazione davvero complessa e confusa. È molto difficile identificare chi appartenga ad Hamas e chi no. E tutto ciò è parte della strategia di Hamas: vogliono mescolare l’apparato civile, pubblico e militare, vogliono creare una forma di confusione per creare problemi a Israele e metterlo in difficoltà davanti alla comunità internazionale.

Ma lo dico chiaramente: non posso giustificare l’uccisione di ogni giornalista a Gaza. Israele deve essere estremamente attento nei confronti degli operatori dei media. E spero davvero che sempre meno giornalisti vengano feriti o uccisi.

Alcuni sostengono che Sinwar abbia progettato questa guerra per rompere lo status quo, garantire il rilascio dei prigionieri e riportare la questione palestinese sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, anche a costo di danni enormi per Gaza. Altri accusano Hamas di usare gli aiuti umanitari e la sofferenza come arma per mantenere il potere. A suo avviso, si tratta di una strategia fredda e deliberata, o di estremismo religioso con fini nichilisti?

Anche questa è una domanda molto importante. In Israele stiamo ancora discutendo di questa questione. Del perché. Perché è stato così importante, per Yahya Sinwar, promuovere un’offensiva così drammatica e senza precedenti contro Israele? Nei mesi, negli anni precedenti al 7 ottobre, la situazione a Gaza era gradualmente migliorata: c’era un aumento dei permessi di lavoro in Israele, arrivavano fondi dal Qatar, e si aprivano progetti infrastrutturali nella Striscia. Quando però analizzi in profondità la situazione, quando cerchi le vere motivazioni, ti rendi conto che non puoi trovarle nella realpolitik. In Israele molti hanno parlato dei prigionieri palestinesi o del desiderio di sabotare la normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita. Ma dobbiamo ricordare che Sinwar aveva iniziato a parlare di quest’operazione già dieci anni fa, molto prima che l’idea della normalizzazione fosse all’orizzonte. Se analizzi tutte le informazioni che oggi abbiamo, capisci che la motivazione alla base è ideologica.

Ed è una cosa che spesso è difficile da comprendere per il mondo occidentale.

Sinwar era convinto che fosse la volontà di Dio. Che il jihad sacro dovesse essere promosso, indipendentemente dai permessi di lavoro o da incentivi economici. Non importa se i permessi di lavoro fossero 7.000 o 100.000: per lui, l’unica cosa importante era combattere. È sorprendente, oggi, rendersi conto che non avremmo potuto evitare l’attacco del 7 ottobre semplicemente aumentando il denaro, i progetti, i benefici per la popolazione di Gaza. E oggi capiamo che il suo obiettivo principale non era necessariamente liberare i prigionieri, o difendere al-Aqsa o il Monte del Tempio: voleva scioccare la società israeliana. Yahya Sinwar ha passato gran parte della sua vita nelle carceri israeliane. Conosceva l’ebraico, conosceva la società israeliana dall’interno. Non credo che pensasse di distruggere Israele in un solo giorno, ma puntava a un logoramento graduale. E, devo ammettere, dopo quasi due anni, non sono sicuro che tutti i suoi obiettivi siano falliti.

C’è stata una crescente controversia intorno alla Gaza Humanitarian Foundation. Alcune voci in Occidente la vedevano come un nuovo canale promettente per gli aiuti umanitari diretti ai civili. Ma ha rapidamente attirato critiche anche da parte del sistema delle Nazioni Unite. Secondo lei, la Fondazione è stata un tentativo sincero e valido, sabotato fin dall’inizio da Hamas, da organismi internazionali o da entrambi? Oppure è stata concepita in modo errato?

Per quanto riguarda la Gaza Humanitarian Foundation (GHF), ti dico subito che, almeno dal mio punto di vista, qui in Israele molti la considerano un fallimento.

La GHF si è basata su un’ipotesi completamente irrealistica, su una fantasia: l’idea che fosse possibile separare la popolazione di Gaza da Hamas o indebolire Hamas senza un piano politico serio. Sai, dopo l’inizio del progetto non abbiamo visto alcuna perdita di controllo da parte di Hamas. Non c’è stato nessun indebolimento del potere di Hamas nell’arena palestinese legato alla GHF. Dobbiamo anche tenere presente che la GHF fa molto affidamento su personale americano, migliaia di americani coinvolti, e il problema è che non comprendono a fondo quanto sia complicata la situazione a Gaza.

Quasi in ogni postazione della GHF, ciò che emerge è un grande caos. Ho parlato con diverse persone che mi hanno raccontato: “Puoi entrare tranquillamente, nessuno ti controlla. Non c’è alcun sistema di verifica serio. Anche membri di Hamas si presentano lì. Puoi prendere dieci scatole di aiuti, non solo una. Nessuno controlla realmente chi sei.”

È frustrante.

E il problema è più ampio. Sembra che Israele continui ad aggrapparsi a fantasie come la GHF, o a iniziative bizzarre come il sostegno a gang locali tipo Abu Shabab a Gaza o a idee come la “visione di Trump”. Ma sono tutte illusioni, fantasie pericolose, invece di elaborare politiche e strategie realistiche. La GHF era considerata uno dei progetti principali. Ma se continuiamo con approcci di questo tipo, non sconfiggeremo Hamas, non creeremo un ordine nuovo a Gaza e continueremo a sprecare risorse pubbliche, rimanendo intrappolati in una frustrazione cronica, incapaci di raggiungere i nostri obiettivi.

Israele ha già speso moltissimo per promuovere la GHF. E pensa che persino Smotrich, il nostro ministro delle Finanze, che all’inizio proclamava: “Non entrerà nulla a Gaza, nemmeno un chicco di riso”, oggi ammette di aver dato miliardi di dollari alla GHF. E questa, temo, è solo la prima fase di un’operazione che potrebbe costare a Israele un prezzo molto alto.

Sono molto preoccupato. Spero che metteremo fine a queste fantasie pazze e dannose e che finalmente si inizino ad adottare strategie realistiche per Gaza.