“Lo Stato degli ebrei”: rileggere Herzl al tempo del neomarranesimo e neomacartismo


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di Davide Servi
Al Circolo Caldara la presentazione della nuova traduzione del  libro di Herzl diventa un dibattito sulla parola “sionismo”: da sogno di libertà a termine conteso. Una riflessione collettiva contro la cancellazione linguistica e culturale del suo vero significato.

Lunedì 27 ottobre, al Circolo Caldara di Milano, la casa editrice dell’associazione Setteottobre — in collaborazione con l’Associazione milanese pro Israele (AMPI) — ha presentato la nuova edizione e traduzione di Lo Stato degli ebrei di Theodor Herzl, il libro che nel 1896 pose le fondamenta ideali del moderno movimento sionista.

All’incontro hanno partecipato Stefano Parisi, presidente di Setteottobre; lo scrittore e giornalista Daniele Scalise, curatore della traduzione; Fiona Diwan, direttrice dei media della Comunità ebraica di Milano; Alessandro Litta Modignani, presidente dell’AMPI; e Marco Paganoni, direttore di Israele.net.

L’evento si è aperto con una citazione che riassume l’intuizione di Herzl — «Noi siamo un popolo, un unico popolo» — e con un invito a “tornare a leggere Herzl per ricordare che il sionismo è il Risorgimento nazionale del popolo ebraico.”

Ma al centro della serata, più ancora del libro, c’era una parola: sionismo.
Una parola oggi ferita, deturpata, svuotata di senso. Negli ultimi anni, nel discorso pubblico, è stata trasformata da concetto di autodeterminazione nazionale in sinonimo d’infamia politica. Da ideale di libertà, è diventata un insulto passe-partout.

Eppure, come hanno ricordato più relatori, il sionismo nacque come movimento di liberazione nazionale: l’idea che un popolo con legami millenari con una terra potesse finalmente vivere in sicurezza e sovranità nella propria patria storica. Rileggere Herzl oggi significa proprio questo — restituire a quella parola la sua lingua perduta.

Ad aprire l’incontro è stato Stefano Parisi, presidente di Setteottobre, che ha spiegato le ragioni della nuova edizione: «è importante riscoprire il valore straordinario del sionismo come movimento ideale che nasce dal basso. Non è come altri movimenti europei imposti dall’alto: il sionismo nasce per liberare gli ebrei — e con loro l’Europa — dall’antisemitismo.» Negli ultimi anni, ha osservato Parisi, il termine è stato distorto fino a essere accostato a “nazismo”, cancellandone la natura originaria di movimento di emancipazione e di liberazione dal pregiudizio. Da qui l’urgenza, ha aggiunto, di recuperare non solo la conoscenza storica di Israele, ma anche il coraggio civile di chi vive in Occidente: non lasciarsi paralizzare dalla paura né “abbassare la testa”, perché «i rischi veri li corrono i ragazzi che combattono. Noi, qui, dobbiamo avere il coraggio di dire che gli ebrei non si toccano.»

Alessandro Litta Modignani, presidente dell’Associazione milanese pro Israele, ha posto l’accento sul clima di censura che oggi circonda chi tenta di parlare pubblicamente di Israele. «La nostra libertà di parola è coartata: le associazioni culturali non possono pubblicizzare le proprie iniziative, come gli ebrei non possono andare in giro con la kippah», ha denunciato. Nel suo intervento ha tracciato un parallelismo tra il sionismo e il Risorgimento italiano, definendo il primo “il risorgimento nazionale del popolo ebraico”. Ha poi contestato le etichette ideologiche che lo riducono a colonialismo o imperialismo, denunciandone l’assurdità storica e concettuale. L’antisionismo, ha aggiunto, è divenuto la forma accettabile dell’antisemitismo contemporaneo: «chi non può più odiare gli ebrei, odia i sionisti». «La difesa di Israele — ha concluso — è un capitolo della difesa dell’Occidente liberale.»

Lo scrittore e giornalista Daniele Scalise, curatore della nuova traduzione, ha raccontato come il lavoro sul testo lo abbia portato a riconsiderare il significato stesso del titolo. L’espressione Der Judenstaat, ha spiegato, è tradotta spesso come “Stato ebraico”, ma la resa più fedele è “Stato degli ebrei”: non un concetto astratto, bensì un soggetto storico — un popolo concreto che rivendica il proprio diritto alla sovranità. Scalise ha descritto il clima sociale odierno come uno spazio in cui «parlarsi e parlare delle cose è diventato pericoloso», e ha visto nella ripubblicazione del volume un atto di resistenza culturale, un modo per riaprire un luogo di dialogo e conoscenza. Herzl, ha ricordato, scrive con linguaggio giornalistico e accessibile, ed è proprio questa chiarezza a rendere la sua voce ancora capace di parlare al nostro presente.

Fiona Diwan, direttrice dei media della Comunità ebraica di Milano, ha rievocato la sua prima lettura di Herzl da adolescente nei movimenti giovanili ebraici, quando si studiavano le diverse correnti del sionismo — religioso, spirituale, revisionista. Ha invitato a restituire tridimensionalità a un termine oggi “inchiodato a una logica binaria che lo annulla”, e ha definito Lo Stato degli ebrei un testo di straordinaria lucidità e potenza visionaria. Herzl, ha ricordato, aveva intuito la dinamica dell’antisemitismo latente che, se non affrontato, è destinato a deflagrare. «Abbiamo creduto che dopo il 1945 l’antisemitismo fosse morto — ha osservato — invece era solo sopito, e oggi sta deflagrando.» Nella sua lettura, Herzl non fu un messianico in senso confessionale, ma un visionario laico: un uomo che credeva nel potere delle idee e nella loro capacità di plasmare la storia.

Il direttore di Israele.net, Marco Paganoni, ha riportato il dibattito sul piano storico e politico, ricordando come l’antisionismo contemporaneo affondi le sue radici in una campagna di propaganda sovietica che, dagli anni Sessanta, accusò il sionismo di incarnare tutti i mali del secolo: colonialismo, razzismo, espansionismo. Paganoni ha decostruito le varie accuse, mostrando come nel linguaggio politico e mediatico degli ultimi anni il termine “sionismo” sia stato deformato in tre direzioni principali.
La prima è l’assimilazione “sionismo = razzismo”, che nega agli ebrei il diritto di autodeterminazione e li riduce a categoria razziale, riproducendo il pregiudizio dell’antisemitismo novecentesco. La seconda è l’equivalenza “sionismo = nazismo”, un rovesciamento morale che disonora la memoria storica. La terza è la lettura “sionismo = colonialismo europeo” — illogica, ha spiegato, perché Israele non ha una madrepatria alle spalle, come nel classico colonialismo — o, in una variante recente, “colonialismo di insediamento”, che cancella l’indigeneità ebraica, la continuità della presenza ebraica nella regione e l’apporto delle comunità mizrahi, originarie del Medio Oriente e del Nord Africa.
Paganoni ha inoltre criticato la narrativa dell’espansionismo israeliano alimentata dalle «mappe truffaldine», che ignorano i ritiri territoriali compiuti dallo Stato ebraico. Ha ricordato che il legame storico del popolo ebraico con la propria terra è documentato e innegabile, e che l’antisionismo — nel negare agli ebrei il diritto stesso di esistere come popolo — non rappresenta soltanto un tentativo di criminalizzare la rinascita ebraica dopo la Shoah, ma costituisce, come minimo, «una minaccia fisica all’esistenza di milioni di israeliani».

Dal pubblico è intervenuto anche Sergio Della Pergola, offrendo una riflessione di taglio sociologico e morale. Ha parlato di un ritorno al “marranismo” — la necessità di nascondere opinioni e identità per timore delle conseguenze — come sintomo di un più ampio crollo della società occidentale. Non si tratta, ha detto, di un problema ebraico, ma di un problema della società stessa: di un sistema culturale in crisi, che non tollera più il dissenso e si ritrae dalla complessità. «Oggi bisogna reprimere la propria opinione — ha avvertito —, e questo segna una regressione civile gravissima.» A riprendere il filo, è tornata Fiona Diwan, che ha affiancato al “neomarranesimo” evocato da Della Pergola un’altra categoria: il “neomacartismo”, quella cultura della censura reciproca per cui “se non la pensi come me, sei fuori”. Un fenomeno, ha concluso, «che rappresenta il vero pericolo del nostro tempo e colpisce, in primo luogo, gli ebrei.»

Da questa costellazione di voci è emersa una diagnosi comune: la parola sionismo è stata violentemente spogliata del suo significato. Oggi è una parola ferita, svuotata, distorta fino a diventare arma retorica. La semantica si fa strumento di cancellazione: basta sostituire a “sionismo” sinonimi falsi — razzismo, colonialismo, nazismo — per delegittimare non una politica, ma l’idea stessa di ebrei come popolo e di Stato degli ebrei.

Tornare a Herzl, in questo clima, significa allora riannodare il filo spezzato della memoria storica e linguistica. Rileggerlo oggi vuol dire riascoltare una voce fondatrice prima che venga soffocata dal rumore ideologico. Significa restituire al sionismo la sua lingua originaria: quella di un movimento di autodeterminazione nazionale, non di oppressione; di libertà, non di dominio.

La serata al Circolo Caldara è stata, in questo senso, più di una presentazione editoriale: un piccolo atto di resistenza intellettuale. In un tempo in cui la parola “sionista” viene censurata o usata come insulto, riscoprire Herzl diventa un gesto di verità — un modo per ricordare che le parole hanno una storia.