Il giornalista Amit Segal: “Il 7 ottobre è stata la Pearl Harbor di Israele”

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di Davide Cucciati
In un interessante in contro online organizzato dal KKL, il giornalista e analista israeliano ha analizzato le guerre passate e quelle più attuali di Israele, mettendo in luce successi ed errori. La guerra recente con l’Iran conclusasi il 22 giugno ha segnato la fine dell’attacco iniziato il 7 ottobre. E si può sperare ora all’estensione degli Accordi di Abramo.

“Stiamo vivendo un momento storico per Israele. Questa è, forse, la settimana migliore da molto tempo. È come se un coltello fosse stato tolto dalla gola all’ultimo minuto a tutta la nazione.” Con queste parole, il giornalista e analista israeliano Amit Segal ha aperto il suo intervento del 26 giugno 2025, durante la conferenza online Operation Rising Lion, organizzata dal KKL. Il tono è stato asciutto, netto, senza fronzoli: un discorso che ha voluto tracciare una linea precisa tra passato e presente, tra ciò che Israele era e ciò che Israele ha compreso, troppo tardi, di dover diventare.

Segal ha ripercorso le guerre d’Israele come tappe di una trasformazione profonda. Ha iniziato dal 1948, dalla guerra d’indipendenza, in cui un esercito giovane si trovò contro “sei o sette eserciti arabi”. In quegli anni, ha ricordato, “prima l’Iraq, poi il Libano uscirono dal circolo delle guerre contro Israele.”

Poi venne il 1967, la Guerra dei Sei Giorni, “così vittoriosa che la Giordania non avrebbe più fatto guerra contro di noi.” Più tardi, la Giordania avrebbe firmato un trattato di pace che dura fino ad oggi. Nel 1973, la Guerra dello Yom Kippur, “forse la più traumatica prima del 7 ottobre,” portò l’Egitto fuori dal conflitto e infine al trattato di pace. Successivamente, nel 1982, la prima guerra del Libano: “fu Israele contro la Siria. So che può sembrare strano dirlo oggi, ma fu davvero così: una guerra tra due eserciti, tra due aviazioni. Dopo quella sconfitta, la Siria non avrebbe più combattuto contro Israele. Forse, ha aggiunto, firmerà gli Accordi di Abramo tra poche settimane.”

Il 1982 segnò la fine delle guerre su larga scala contro i regimi arabi. Ma, avverte Segal, qualcosa di più drammatico stava emergendo. “Quella guerra non fu solo contro la Siria ma anche contro organizzazioni terroristiche: l’OLP e Hezbollah.” Dopo il 1982, Israele rimase nella zona meridionale del Libano per proteggere il nord. Ma col tempo, ha detto Segal, “si diffuse l’idea che fosse un prezzo troppo alto perdere circa 25 soldati all’anno. La gente cominciava a pensare che l’era delle grandi guerre fosse finita.”

Così arrivarono gli anni ’90. Segal ha dipinto quell’epoca con precisione: “Crollava il Muro di Berlino, Michael Jackson suonava a Tel Aviv, MTV, la TV commerciale, McDonald’s in Israele. L’era dei confini sembrava finita. Sembrava che non ci fosse più motivo di combattere guerre. Si pensava di poter vivere in un Medio Oriente di pace e prosperità.” Così arrivò l’illusione. “Sì, ci sarà terrorismo, pensavamo, ma siamo più forti. Non c’è bisogno di stare nel sud del Libano, né nella West Bank, né a Gaza. Possiamo tornare ai confini più piccoli, riconosciuti a livello internazionale. Questo era lo spirito degli Accordi di Oslo.” Ma non avevamo capito. Non avevamo capito l’OLP, né Hamas, né cosa stesse davvero accadendo: “La Seconda Intifada, che fu condotta anche da Hamas e dall’OLP; la Seconda guerra del Libano; le operazioni contro Hamas nel 2014 e nel 2021…non avevamo capito che queste organizzazioni non erano più semplici organizzazioni terroristiche. Stavano diventando vere e proprie organizzazioni militari. Questo spiega cosa è successo il 7 ottobre.” Segal non ha risparmiato critiche: “Penso che ognuno si sia chiesto cosa abbia portato lo Shin Bet a dormire anche quando c’era la possibilità concreta di un’invasione su larga scala. Avrebbero potuto almeno dire ai soldati nel sud di svegliarsi. Non per forza al Primo Ministro ma almeno ai soldati.”

Secondo il giornalista israeliano, Israele, inteso come Stato, come leadership militare, ma anche come società, media e governo, non ha compreso che non si trattava di un attentato, ma di un’invasione militare. “Lo Shin Bet e l’esercito hanno sbagliato a pensare che lo scenario peggiore fosse 50 o 100 terroristi. Fino al 7 ottobre, il massimo era stato 25 terroristi insieme. Ma il 7 ottobre furono 6.000. Pertanto, non erano terroristi. Erano bensì due divisioni commando che invadevano Israele da Gaza. Due divisioni iraniane, al nostro confine sud. Inoltre, c’erano sei divisioni addestrate dall’Iran nel nord: Hezbollah. Questo è ciò che Israele ha rifiutato di capire: che non avevamo più a che fare con dei terroristi. Era iniziata la nuova guerra iraniana del XXI secolo.”

Segal ha citato un’espressione del passato: “Dopo la guerra dello Yom Kippur si diceva: “i siriani sono al confine”. Voleva dire che qualcosa di drammatico stava per accadere. Ancora oggi, se le brigate siriane si muovessero, tutto Israele sentirebbe le sirene. Ma per mesi, per anni, abbiamo visto otto divisioni commando al confine e abbiamo rifiutato di capirlo. Perché non li percepivamo come un esercito ma come un’organizzazione terroristica.” Poi, il dettaglio che più ha colpito Segal: “A Metulla, il 7 ottobre, c’erano solo venti soldati a difendere la città. Contro sei brigate di Hezbollah. Penso che il primo miracolo del 7 ottobre sia che Sinwar, il leader di Hamas, non si sia coordinato con Hezbollah e l’Iran. Questo ci ha salvati. Se Hezbollah avesse attaccato insieme, come ha detto un alto ufficiale israeliano, Hezbollah e Hamas si sarebbero dati il cinque a Tel Aviv. Pensate se ci fossero stati anche dei missili balistici dall’Iran. Il 7 ottobre è stato la Pearl Harbor della guerra tra Israele e Iran. Quel giorno, i proxy dell’Iran, e quindi l’Iran stesso, hanno lanciato la guerra contro Israele.”

Il 7 ottobre, ha detto Amit Segal, è stato l’inizio. La Pearl Harbor israeliana è finita solo il 22 giugno 2025, quando l’aeronautica militare statunitense ha attaccato gli obiettivi nucleari iraniani. È in quel momento che Israele ha iniziato a vedere un cambiamento strategico reale. “Israele ha ridotto Hamas a dimensioni minori: non è più un esercito, è tornato a essere un’organizzazione terroristica come era 32 anni fa. Hezbollah era un esercito, ed è tornato a essere un’organizzazione terroristica come 21 anni fa. Ora che l’Iran non è più protetto, e che Israele ha sconfitto i suoi proxy, Israele e Stati Uniti hanno attaccato l’Iran, portando il programma nucleare ufficialmente indietro di tre anni, ma secondo me al livello che aveva vent’anni fa. Non penso che l’Iran investirà di nuovo 500 miliardi di dollari negli impianti nucleari sapendo che potrebbe esserci un altro presidente americano che li attaccherà.”

Poi Segal ha proposto un parallelo storico: “Il 21 e 22 giugno è stata una notte importantissima. Dopo la Prima guerra mondiale, gli americani non volevano più che i loro soldati morissero invano in stati stranieri. Così emersero gli isolazionisti, tra repubblicani e democratici. Negli anni Trenta questo atteggiamento continuò e finì con Pearl Harbor. Lo stesso è accaduto dopo le guerre in Iraq e in Afghanistan. Lo vediamo oggi tra i democratici ma anche tra i repubblicani MAGA. Trump ha fatto finire l’era isolazionista senza Pearl Harbor e senza caduti. Per la prima volta si è visto che l’intervento americano non implica impantanarsi come in passato. Questo ha mandato un forte messaggio. Russia e Cina hanno visto.”

Ma la guerra non è finita. “Ci sono ancora 20 rapiti vivi nella Striscia di Gaza e ancora oggi i soldati muoiono in combattimento.” La domanda, ora, è cosa accadrà dopo. Segal ha spiegato che oggi l’esercito israeliano non si confronta più solo con persone, ma con territorio e infrastrutture. “Nel passato l’esercito, sotto il comando di Herzi Halevi, ha ucciso migliaia di terroristi, ma poi questi si riformavano, perché Gaza è avvelenata da un sistema educativo che insegna che gli ebrei sono maiali e che vanno eliminati come animali. Non ci sarà una fine così.”
Invece, le infrastrutture non si rigenerano: “Una volta che elimini un sistema di tunnel, i nemici non possono costruirne un altro. Quando prendi un territorio, i terroristi non possono tornarci. Questo è il grande cambiamento.” Resta un’incognita: la pazienza. “Non so se la società israeliana avrà pazienza per altri due-tre mesi così. Io penso che se Hamas accettasse un cessate il fuoco in cui Israele resta al perimetro e ha libertà di agire in caso di attività ostile, e tutti i rapiti fossero liberati, penso che ci potrebbe essere un’opportunità per chiudere questa guerra. Ma la decisione è su Hamas. Penso che anche il gabinetto di guerra israeliano approverebbe un accordo in tal senso.”

Nella sessione finale di domande, Amit Segal ha risposto in modo diretto a una serie di questioni, toccando alcuni dei temi più cruciali per il futuro di Israele e di tutti gli ebrei nel mondo.

Parlando di propaganda e immagine pubblica, ha spiegato che la hasbarà non può avere successo se il messaggio è semplicemente “quanto stiamo soffrendo”. Ha ricordato che, subito dopo il 7 ottobre, quando l’Empire State Building e la Tour Eiffel si illuminarono di blu e bianco, Segal fu colto da una certa preoccupazione: “Perché significava che gli occidentali ci vedevano come deboli. Poi, quando Israele ha risposto con forza su Gaza, c’era abbastanza miseria per passare alla narrazione di Golia contro Davide.” Per questo, secondo Segal, Israele deve parlare di giustizia e vincere rapidamente, con forza, indipendentemente da chi sia al governo: “Quando si combatte a lungo e con intensità media, si danneggia l’immagine internazionale del Paese.”

Quanto alla diplomazia, Segal si è detto convinto che gli Accordi di Abramo non siano affatto finiti. Anzi: potrebbero includere l’Arabia Saudita in un futuro prossimo, e forse anche la Siria, almeno sotto forma di normalizzazione.

Un altro punto importante è stato quello sugli aiuti umanitari a Gaza. Segal ha sottolineato come, per la prima volta, la distribuzione non sia gestita da Hamas, ma da enti terzi che ha già distribuito milioni di pasti. Ciò ha indebolito Hamas anche sul piano fiscale: “Fino a poco tempo fa Hamas tassava il 50% sugli aiuti. Pensate che a Gaza il 65% della popolazione fuma e ogni sigaretta era tassata. Immaginate quanti soldi abbia incassato Hamas solo così.”

Interrogato sulla crisi costituzionale in Israele, Segal ha fotografato un Paese diviso tra due visioni: da un lato chi teme l’esistenza di un deep state che limita il governo, dall’altro chi accusa il governo di voler instaurare un dominio della maggioranza senza limiti. Il problema, ha spiegato, è l’assenza di una Costituzione, di un sistema bicamerale e di un vero sistema di pesi e contrappesi. “La Corte Suprema ha cercato di riempire questo vuoto, come fosse la House of Lords ma senza averne l’autorità formale.” Tuttavia, ha anche indicato un’apertura: “Oggi, dopo il 7 ottobre, le persone hanno capito che Netanyahu non è il diavolo. Esiste una finestra per una reale unità delle forze sioniste e per riformare il sistema e scrivere regole comuni.”

A chi rilancia l’accusa di crimini di guerra, Segal ha risposto secco: “Israele non uccide chi prende il cibo. Questa è propaganda di Hamas. L’esercito israeliano spara ai terroristi, non ai civili. Il ministero della Sanità di Gaza? È semplicemente un altro nome per dire Hamas.”

Il discorso è poi scivolato su TikTok e sull’ecosistema digitale. Segal ha osservato che l’eco mediatica della comunità musulmana è inevitabilmente più ampia rispetto a quella ebraica, per una questione numerica, e che la piattaforma cinese ha un evidente bias. “Anche se ogni ebreo twittasse due volte al giorno, non cambierebbe molto. Ma se Israele vincerà davvero, allora cambierà anche la narrazione. Ci sarà pace con Arabia Saudita, Siria, forse anche Libano, e Israele smetterà di essere percepito come un Paese in guerra e di caos, per essere visto, invece, come una superpotenza.”

Un passaggio particolarmente autocritico è stato quello sulle trattative con i terroristi. “Tutte le forme di terrorismo (dirottamenti, ostaggi, attentatori suicidi) sono state sperimentate prima contro Israele. Siamo stati un laboratorio per i terroristi, ma anche per le tecniche per combatterli. In passato rifiutavamo qualsiasi trattativa. Oggi siamo diventati il Paese che più tratta. Nel 2011 abbiamo liberato 1.000 terroristi per un solo soldato, Gilad Shalit. Oggi, oltre ad aver liberato assassini, abbiamo pagato anche un prezzo strategico sul campo, trasmettendo il messaggio che si può perdere una guerra pur di riavere i rapiti. È un cambiamento drammatico. Credo sia stato un errore grave e che Biden abbia spinto Israele in questa direzione.”

Alla domanda posta dalla redazione di Mosaico sul regime change in Iran, Segal ha risposto con cautela, ma senza ambiguità. “La cosa peggiore per cambiare il regime in Iran sarebbe se Israele e gli Stati Uniti volessero farlo da soli.” Ha ricordato che Israele e gli Stati Uniti hanno pessime esperienze in materia: “Cuba è un esempio. Si dice che in Iraq sia stato un successo ma è comunque stato un bagno di sangue. Quanto a Israele, lo stato ebraico provò a stroncare il regime in Libano ma si giunse a una guerra civile e la decisione di consentire il ritorno di Yasser Arafat, che avrebbe dovuto garantire ordine e sicurezza, sfociò invece nella Seconda Intifada.” Per questo, ha aggiunto, “non saranno Israele e gli Stati Uniti da soli a cambiare il regime islamico ma Israele e gli Stati Uniti hanno creato le condizioni perché il regime change possa avvenire. Penso che lo vedremo in un periodo breve.”

Il tema dell’informazione è tornato con forza sulla questione dei giornalisti a Gaza. “Non esiste una terza via: o sei embedded con l’esercito israeliano, o sei embedded con Hamas. Chi prova a essere oggettivo, in un contesto come Gaza, rischia la vita. Per questo non possiamo fidarci dei report che arrivano da lì, finché Hamas continuerà a governare.”

Infine, in una riflessione prospettica sul lungo periodo, Segal ha indicato la Turchia come possibile futura minaccia. “Ha un esercito molto forte, un’intelligence di alta qualità, ed è più vicina a Israele dell’Iran. Nei prossimi dieci o vent’anni, potrebbe essere la minaccia più seria.”. La redazione di Mosaico ha tuttavia osservato il possibile ruolo di mediazione che potrà essere svolto dall’Azerbaijan e Segal ha confermato questa ipotesi.

In conclusione, se il 7 ottobre è stato davvero la Pearl Harbor d’Israele, come ha indicato Segal, allora la sfida che si apre non riguarda solo la vittoria militare sul campo. Riguarda la capacità di Israele di ridefinire i parametri della propria sicurezza e della propria convivenza interna, sapendo che la stabilità regionale non sarà più un dato ereditato dal passato ma un terreno da ricostruire, passo dopo passo, in un Medio Oriente che cambia ogni giorno davanti ai nostri occhi. La partita che si gioca ora non è solo sul confine di Gaza o sul cielo del Libano ma sulla capacità di Israele di restare se stesso e di adattarsi, insieme, a un futuro che non concede più illusioni.