I relatori del livetalk di Formiche.net sugli Accordi di Abramo

Gli Accordi di Abramo resteranno saldi, a prescindere da chi guiderà Israele

Eventi

di Francesco Paolo La Bionda
Dopo la firma degli Accordi di Abramo, restano diverse questioni aperte sul futuro di Israele e del Medio Oriente. Dalla linea che terrà il prossimo governo israeliano politica estera alle prospettive di lungo periodo per le relazioni tra lo Stato ebraico e i firmatari arabi al ruolo degli Stati Uniti sotto la nuova presidenza, specialmente in relazione al nucleare iraniano.

Questi sono stati i temi al centro del live talk “Israel and the Gulf. Post elections and Abraham Accords”, organizzato da Formiche.net lo scorso 29 marzo, in cui si sono confrontati Cinzia Bianco, Visiting Fellow presso European Council on Foreign Relations, Yossi Melman, Security and Intelligence commentator di Haaretz e Aaron David Miller, Senior Fellow del Carnegie Endowment for International Peace.

Le divisioni perduranti della società israeliana

Il punto di partenza del confronto è stata la situazione post-elettorale nello Stato ebraico.  Per Yossi Melman, Israele dopo la nuova chiamata al voto non si è diviso più di quanto già non sia stato negli ultimi cinque o sei anni. Secondo il giornalista infatti le radici delle contrapposizioni sono profonde e si riflettono semplicemente nei risultati alle urne invece che essere determinate dal sistema elettorale stesso.

Per Melman le stesse elezioni sono state di fatto un referendum su Netanyahu e sulla continuazione del suo premierato che dura da ormai dodici anni, un tema che ha dominato la narrativa più delle grandi questioni quali la pandemia, il conflitto con i palestinesi e l’economia. Ritiene quindi minoritaria la possibilità che il primo ministro venga scalzato dalla sua posizione, eventualità che potrebbe realizzarsi, per breve tempo, solo con un’ampia coalizione che includa anche i partiti più radicali.

Aron Miller ha quindi analizzato le implicazioni della maggioranza di seggi andati a destra per la politica estera israeliana. Lo studioso ritiene che ci sia una tendenza ricorrente da parte dei cittadini israeliani a fidarsi delle scelte del governo in materia di politica estera, anche quando non investono particolare fiducia nel governo stesso, ricordando come esempio come le proteste di piazza più rilevanti nella storia israeliana, quelle del 2011, siano state dettate da rivendicazioni economiche anziché legate alla questione palestinese o ai rapporti con gli stati confinanti.

Miller ha quindi evidenziato come Israele sotto Netanyahu non sia diventato, come alcuni temevano, una nazione internazionalmente isolata a causa della mancata risoluzione della questione palestinese ma al contrario abbia infittito la rete di rapporti diplomatici. Ha quindi toccato il tema della nuova amministrazione americana, pronosticando che date le sfide interne Biden adotterà un approccio prudente nei rapporti con Israele.

Gli Accordi di Abramo nel lungo periodo

Cinzia Bianco è quindi intervenuta sulle implicazioni per gli Accordi di Abramo, sottolineando come il trattato costituisca una partnership geopolitica destinata a sopravvivere alla vita politica dei leader nazionali che li hanno stipulati. Gli Emirati Arabi Uniti in particolare, secondo la ricercatrice, intendono cogliere le opportunità di lungo termine offerte dagli Accordi in termini di rafforzamento come potenza regionale, di miglioramento della sicurezza e di sviluppo del commercio e delle infrastrutture, in particolare nell’ottica di un affaccio sul Mediterraneo. Israele inoltre è stimato da Abu Dhabi anche come partner in ambito scientifico e tecnologico.

Secondo Bianco poco gradito agli emiratini sarebbe invece stato l’uso propagandistico che Netanyahu ha fatto degli Accordi in campagna elettorale, comprese la visita, annunciata e poi annullata, del primo ministro israeliano ad Abu Dhabi. Gli emiri vorrebbero infatti una maggiore riservatezza nella gestione degli Accordi per non peggiorare i malumori sulla partnership già ampiamente diffusi nel mondo arabo e musulmano.

Per Melman gli Emirati continueranno a lavorare a stretto contatto col futuro premier israeliano, chiunque esso sia, ma a condizione che non scoppino nuove ostilità a Gaza o in Cisgiordania. In tal caso, le relazioni tra Israele e i paesi arabi, inclusi i firmatari degli Accordi più recenti come il Marocco, potrebbero essere sospese o quantomeno ridotte all’ufficiosità.

Il ruolo centrale degli Stati Uniti nella nuova pace

Miller ha invece rimarcato un’importante differenza tra gli Accordi di Abramo con i precedenti trattati siglati da Israele con Egitto, Giordania e Autorità Palestinese, ovvero il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti già dall’inizio delle negoziazioni. Un ruolo importante nel successo della trattativa sarebbe stato infatti giocato dalla convinzione da parte araba che “la via per Washington passi da Gerusalemme” e a questo riguardo Bianco ha voluto rimarcare la differenza tra le motivazioni degli Emirati Arabi Uniti e quelle di Marocco, Sudan e Bahrein, ritenendo che gli ultimi tre non avrebbero mai normalizzato le relazioni con Israele se gli americani non avessero offerto una contropartita concreta, come ad esempio la rimozione del Sudan dalla lista degli stati sanzionati dal governo americano o il riconoscimento della sovranità marocchina sul Sahara Occidentale.

Gli Emirati, che intrattengono invece relazioni già salde con Washington, per la ricercatrice sarebbero stati più sinceramente spinti dalla volontà di creare con Israele una cooperazione economica, anche in luce della contrazione del mercato degli idrocarburi, e geopolitica, in particolare per contenere la Turchia.

Melman ha inoltre rimarcato che, mentre nei precedenti trattati Israele aveva chiesto agli Stati Uniti delle contropartite per la propria sicurezza, dagli aiuti militari a quelli economici, nel caso degli Accordi di Abramo invece è stata l’amministrazione americana a imporre a Israele di fermare l’annessione della Cisgiordania e di non ostacolare la vendita degli F35 americani agli Emirati.

Le prospettive per il futuro del Golfo

Per Miller nell’immediato l’amministrazione Biden non farà rientrare gli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare iraniano, nonostante lo stesso presidente avesse dichiarato pubblicamente di volerlo fare. La maggioranza troppo risicata alla Camera e al Senato sui repubblicani e il rischio di perderla nelle elezioni di metà mandato suggeriscono infatti al nuovo presidente cautela anche in politica estera. Israele e l’Arabia Saudita non sarebbero inoltre convinti che l’Iran possa di fatto armare delle vere testate atomiche prima di alcuni anni.

Anche Bianco si è detta scettica sulla possibilità di un nuovo accordo nucleare nel breve termine, e ha poi richiamato l’attenzione sulle elezioni iraniane che si terranno a giugno: è data infatti come probabile una vittoria dei “falchi”, che spingerebbe i pasdaran ad aumentare ulteriormente l’aggressività nel teatro regionale nel tentativo di forzare un ritorno americano al tavolo delle trattative. Tutti gli attori in campo secondo la ricercatrice stanno comunque già cercando di rendere le così più difficili e servirà una forte volontà politica e un ampio sostegno a chiunque vorrà affrontare la questione iraniana.

Melman a riguardo ha invece affermato di aver notato un cambiamento dopo l’ingresso di Biden nella Casa Bianca: Netanyahu ha smesso di definire il nucleare iraniano una minaccia esistenziale per Israele. Decisione che secondo il giornalista sarebbe imputabile alla volontà di mostrarsi dialogante con il nuovo presidente americano.  Israele in futuro potrebbe continuare ad opporsi all’accordo e alla rimozione delle sanzioni contro Teheran, ma l’establishment militare israeliano potrebbe invece premere per un ritorno alla diplomazia alla luce delle limitate possibilità di un’azione militare contro gli iraniani.

Il video del live talk è disponibile qui.