Moked 2013/ Indagine sull’ebraismo italiano: la forte volontà di essere comunità

Taccuino

di Ilaria Myr

Milano Marittima – E’ una forte propensione al senso di comunità quello che con più forza emerge dalla ricerca socio-demografica sull’ebraismo italiano condotta dal prof. Enzo Campelli e dai suoi collaboratori lo scorso anno, fra gli iscritti delle varie comunità ebraiche italiane. I risultati di questa indagine, voluta dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, sono stati presentati in anteprima nel corso dell’annuale Moked di Milano Marittina (25-28 aprile) – il primo, dopo la modifica dello Statuto del 2010, in cui si svolgono contemporaneamente anche gli Stati generali della comunicazione.

L’indagine, voluta dall’Ucei e commissionata al prof. Enzo Campelli, docente di metodologia delle scienze sociali all’Università La Sapienza di Roma, è stata condotta su 1.422 iscritti alle 21 comunità ebraiche italiane, sulla base di un articolato questionario di 100 domande, molte delle quali aperte. «Questa ricerca non è certamente rappresentativa di tutto l’ebraismo italiano – ha esordito Campelli – e non ignora che al di fuori degli iscritti esiste ancora un ebraismo, che qui non è rappresentato. Nonostante ciò, essa fornisce elementi di completezza e riflessione interessanti, che possono servire da “compagni di strada” della politica». Vediamo dunque i contenuti.

Un primo elemento interessante è quello relativo agli aspetti negativi delle Comunità (vedi tabelle sotto). Al primo posto, la ‘conflittualità, la divisione’ (38,4%), seguito dai ‘problemi legati alla leadership comunitaria’ (33,5%). In particolare, l’aspetto di questa divisione sentito come causa più determinante dalla maggioranza (79,8%) sono gli ‘interessi personali, conflitti di potere, lobbies’, seguiti da ‘modi di intendere l’ebraismo’ (66%) e ‘dissidi di natura politica’ (38,8%). «Ne emerge un’avversione nei confronti dell’autoreferenzialità delle istituzioni, sentite come lontane dagli iscritti – continua Campelli – e, in alcuni casi, spinte da interessi personali».

Al quarto posto degli aspetti negativi c’è l”eccessiva rigidità dell’osservanza’: un tema, questo, che attraversa  trasversalmente tutta l’indagine e che rappresenta uno dei terreni di divisione più drammatici.

Interessante, poi, è quello che emerge sul discorso “scuola”, che raccoglie il 17,5% dei consensi, e riguardo al quale viene spesso citata l’eccessiva religiosità. «Aver frequentato o no le scuole ebraiche non si è mai dimostrata una variabile significativa, capace di suggerire opinioni diverse – continua Campelli -. In molti casi, dunque, la frequentazione di una scuola non sembra sedimentarsi in un patrimonio stabile e non comporta atteggiamenti di lunga durata, capaci di distinguere fra chi l’ha frequentata e chi no».

Spinosa anche la questione del rabbinato, criticato dall’11,4%. Si tratta di osservazioni di vario tipo, fra cui prevale la capacità di aggregare, lo scarso rapporto con gli iscritti alla comunità e la loro “imprendibilità” e la scarsa capacità di rispondere alle esigenze attuali. Diversamente però dai leader politici della comunità, però, quelli religiosi ottengono dagli intervistati anche commenti positivi.

L’indagine mette poi anche l’accento su quelle che sono le principali difficoltà degli ebrei italiani oggi, fra cui spiccano le “caratteristiche strutturali dell’ebraismo italiano” (35,2%), “l’eccessiva rigidità sul piano religioso” (33%), e, al terzo posto “la diminuzione della partecipazione comunitari”. Ed è proprio quest’ultimo aspetto quello forse più eloquente di tutta la ricerca, che ben evidenzia quale sia il percepito del senso di comunità fra gli intervistati. «La maggior parte di chi si lamenta di questo aspetto è la prima a non partecipare, o a farlo poco, alla vita comunitaria –. L’appartenenza alla comunità è dunque una ferita aperta, che vorrebbe essere più comunità di quello che è, ma che per vari e differenti motivi ancora non riesce». A questo si aggiunga il fatto che la partecipazione è sentita come legata all’osservanza religiosa, con il risultato che chi non è osservante sta “alla larga” dalla comunità, sentita come “casa degli osservanti”.

Ecco quindi emergere con forza la questione degli ebrei lontani, tanto sentita in molto comunità.

Non mancano, poi, fra le difficoltà, le “criticità a carico del rabbinato” (16,1%), la più frequente delle quali è la mancanza di maestri dal profilo carismatico.

E poi c’è il discorso dell’identificazione ebraica, sentita dalla maggioranza come “perpetrare le tradizioni” (45%), “continuare la storia famigliare” (42%), “trasmettere l’ebraismo a figli” (35,3%), “sentirsi parte di un popolo e di una comunità (28,5%), “condividere valori morali” (28,2%). «Sono quindi i legami con la storia e la famigli ad avere i primi posti nell’identificazione nell’ebraismo – continua Campelli -, mentre gli aspetti religiosi arrivano solo in seconda piano. L’ebraismo, insomma, è sentito come un’istanza personale, che non ha bisogno di osservanza puntuale delle mizvot. E questo è presente sia in chi non osserva affatto che da chi molto»

L’indagine, in fase di conclusione, sarà pubblicata entro l’estate. Già da questi primi elementi qui esposti, ne emergono però i sentimenti dominanti, sui quali le comunità e l’Unione stessa possono – e devono – riflettere. “C’è un profondo desiderio di comunità e di comunanza – conclude Campelli -: si vorrebbero comunità più inclusive dal punto di vista religioso, combattendo quella che molti intendono come pratica di allontanamento da parte degli osservanti. Ma inclusiva anche sul fronte politico e su quello delle attività. La sensazione è che c’è una potenzialità straordinaria nell’ebraismo italiano, che deve essere valorizzata e sfruttata».

I commenti dei consiglieri Ucei di Milano

Partecipazione e identità, ma anche una forte critica nei confronti della leadership comunitaria sono, dunque i temi più forti. Su questi, chiediamo ad alcuni consiglieri Ucei di Milano, presenti al Moked,  un commento.

Cobi Benatoff: «Dall’indagine emerge chiaramente un concetto che io vado ripetendo da tanti anni: nella comunità ebraica italiana esiste una forte contraddizione fra il fatto che è ortodossa, ma, allo stesso tempo, composta da ebrei laici. L’idea unitaria di comunità è oggi anacronistica, perché sono pochi quelli che vi si riconoscono. Si dovrebbe, invece, pensare a delle federazioni di carattere nazionale che aggregano persone che si riconoscono negli stessi ideali».

Raffaele Turiel: «Da questa indagine emergono dei dati di cui siamo già a conoscenza come, ad esempio, il tema della divisione della comunità e degli esclusi. Mi hanno colpito, in particolare, due dati contrapposti, espressione di due target diversi: da un lato, l’indicazione di un eccesso di religiosità come fattore allontanante, e, dall’altro, la debolezza culturale in termini di identità. Queste sono le due polarità rispetto alle quali navighiamo in mezzo, e a seconda delle maggioranze di governo delle comunità i vicini diventano lontani, e viceversa. E’ dunque difficile trovare una sintesi e un modello che possa accontentare tutti».

Guido Osimo: «Sono stato fra gli intervistati, e su alcuni aspetti non sono molto convinto. In parte una ricerca di questo tipo ha trovato quello che voleva cercare, alcune di buon senso, come la consapevolezza che ci siano persone lontane. Non ho però input particolari da questa ricerca: principalmente di buon senso».

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