papa Leone XIV

«Basta violenza antisemita»: il Papa dopo la strage di Sydney e il musulmano che ha salvato vite

Mondo

di Nina Deutsch
L’attentato contro la comunità ebraica di Sydney riporta al centro la condanna netta di Papa Leone XIV, accolta dal Congresso Ebraico Mondiale, e il gesto di Ahmed al-Ahmed, musulmano che ha affrontato l’attentatore: un segnale raro ma potente di solidarietà reale in un tempo di crescente isolamento degli ebrei nel mondo. Tra parole, memoria e azioni concrete si gioca oggi una partita decisiva: non solo contro l’antisemitismo, ma per la tenuta morale delle nostre società.

 

Di fronte alla violenza che torna a colpire nel cuore delle società aperte, le parole possono sembrare fragili. Eppure, in certi momenti, sono proprio le parole – se pronunciate con chiarezza morale – a tracciare una linea, a indicare un orientamento, a impedire che l’orrore diventi normalità. È quanto è accaduto dopo l’attentato di Sydney, durante una celebrazione ebraica a Bondi Beach, quando Papa Leone XIV ha scelto di intervenire senza ambiguità, chiamando le cose con il loro nome: odio antisemita.

A ridosso della strage, il Pontefice ha invitato i fedeli alla preghiera per le vittime e ha lanciato un appello netto: «Basta con queste forme di violenza antisemita. Dobbiamo eliminare l’odio dai nostri cuori». Parole pronunciate durante un’udienza pubblica, ma rivolte ben oltre i confini della Chiesa cattolica, come riportato anche dall’agenzia Ansa.

Non è un episodio isolato. Leone XIV, fin dall’inizio del suo pontificato, ha mostrato un approccio coerente e pacificatore sui grandi temi che attraversano il nostro tempo, antisemitismo incluso. «Il Papa fa il Papa», verrebbe da dire: non cerca scorciatoie ideologiche, non indulge in silenzi prudenti, ma richiama con fermezza alla responsabilità morale. In un’epoca di polarizzazioni estreme, questo stile ha un valore politico nel senso più alto del termine.

Non a caso, già precedentemente a fine ottobre, il Congresso Ebraico Mondiale ha accolto con favore la sua ferma condanna dell’antisemitismo. In un comunicato ufficiale, il WJC ha sottolineato l’importanza delle sue parole, ricordando come il Papa abbia ribadito che «la Chiesa non tollera l’antisemitismo e lo combatte, sulla base del Vangelo stesso». Un’affermazione che si inserisce nel solco aperto da Nostra Aetate, di cui quest’anno ricorre il sessantesimo anniversario, e che continua a rappresentare una bussola per il dialogo ebraico-cristiano.

Le parole di apprezzamento del presidente del WJC, Ronald S. Lauder, sono state altrettanto significative. In un momento storico in cui – come ha ricordato – «gli ebrei stanno affrontando la più grande persecuzione dalla Seconda Guerra Mondiale», il messaggio del Papa assume un valore fraterno e concreto. Non risolve i conflitti, ma contribuisce ad abbassare la temperatura dell’odio, a rompere l’isolamento, a riaffermare un principio semplice e spesso dimenticato: l’antisemitismo non è un’opinione, è un veleno.

Ma se le parole sono fondamentali, i gesti lo sono altrettanto. E talvolta parlano ancora più forte. A Sydney, mentre l’attentato era in corso, un uomo ha scelto di non voltarsi dall’altra parte. Ahmed al-Ahmed, 43 anni, fruttivendolo, musulmano, padre di due figli, ha affrontato l’attentatore e ha contribuito a neutralizzarlo, esponendosi direttamente al pericolo. È rimasto ferito, ha avuto bisogno di cure mediche, ma il suo intervento ha salvato delle vite.

Il suo gesto va oltre il coraggio fisico, pur straordinario. È un atto che rompe le narrazioni tossiche, che smentisce con i fatti i pregiudizi reciproci, che mostra come l’istinto umano possa prevalere sull’ideologia. Come scrive il Jerusalem Post, è tempo che figure come Ahmed diventino simboli di cosa significhi il coraggio quando nasce dalla decenza e non dal calcolo.

Da sinistra Chris Minns, premier dello stato australiano del New South Wales, con Ahmed el Ahmed
Da sinistra Chris Minns, premier dello stato australiano del New South Wales, con Ahmed el Ahmed

In un’epoca in cui l’odio antiebraico si traveste da linguaggio politico, da rivendicazione identitaria o da rabbia sociale, la risposta non può essere una sola. Servono le parole chiare delle autorità morali, come quelle di Papa Leone XIV. Serve l’impegno istituzionale e culturale, come quello del Congresso Ebraico Mondiale. E servono, forse più di tutto, i gesti spontanei di persone comuni, come Ahmed al-Ahmed, che ricordano a tutti che la convivenza non è un’astrazione, ma una scelta quotidiana.