Dall’inferno alla vita: il cammino di Alon Ohel

Israele

di Nina Deutsch

L’ex ostaggio racconta il suo rapimento, le torture e le molestie sessuali subite durante la prigionia

«Mangerai come un cane. Non sei una persona, sei un animale». Queste parole – crude, disumanizzanti – sono quelle che i suoi carcerieri gli rivolgevano ogni giorno. Parole che non giungevano da un nemico distante, ma da chi lo aveva catturato, strappandolo a una vita normale. E così, per più di due anni, Alon è stato ridotto a ciò che loro volevano: un oggetto, una presenza da annientare.

Ora, dopo il rilascio e il ritorno alla libertà, in un’intervista su Channel 12, la sua voce racconta un’esperienza che rasenta l’inimmaginabile. Ma racconta anche la rinascita, la determinazione, la volontà di non essere più una vittima.

VIDEO Intervista: Alon Ohel rompe il silenzio

L’inizio dell’incubo

Era la notte dell’attacco del 7 ottobre 2023, al festival musicale Nova Music Festival. Tra musica, sogni e amicizie, un’esplosione di morte e terrore. Alon, insieme a tanti altri, tentava di scappare mentre le pallottole e le granate cadevano. Racconta di essere stato trascinato dentro un pickup «come un sacco di patate», insieme ad altri giovani – un gesto che rompeva anche la dignità: un corpo senza nome, senza volto, senza futuro.

Arrivato in un ospedale di Gaza, con ferite sul viso e sul corpo, dove è stato accolto da una folla ostile, ha subito un intervento chirurgico in condizioni disumane, senza rispetto: una ferita che non è stata solo fisica, ma dell’anima. È l’inizio di una prigionia che nessuna immaginazione potrebbe descrivere totalmente.

L’inferno dentro un tunnel – fame, catene, silenzio

Per circa un anno e mezzo, Alon ha vissuto con le gambe incatenate. «Ti tolgono la libertà di movimento, mettono catene alle gambe», ha raccontato. Viveva nell’oscurità, in un tunnel, dove la luce del sole era solo un ricordo. Alle sue condizioni – già gravemente ferito – si aggiungeva la tortura lenta e crudele della fame: a volte solo una pita, qualche cucchiaio di piselli, o dei datteri secchi. Il corpo si atrofizzava, lo sguardo diventava spento, il respiro un peso. «Sembravo un cadavere», ha detto.

A questo si aggiungeva l’orrore dei maltrattamenti psicologici e fisici: minacce continue, umiliazioni, imposizioni degradanti. In alcune occasioni, prigionieri venivano costretti a docce forzate e subivano molestie sessuali. «Giocavano con il cibo e con noi – ha detto –. In vita mia non ho mai vissuto qualcosa di simile».

Il dolore: non solo fisico, ma mentale. La sensazione di perdere sé stessi, la propria umanità, di ridursi a «una scimmia», a un «animale». Come diventare ombre di sé stessi, in attesa di un domani che sembrava non arrivare mai.

Eppure, in quell’abisso, la speranza restava – per quanto fragile. Un’ancora: il desiderio di riabbracciare sua madre, di vedere la luce, di credere ancora in un ritorno. «Non ho mai smesso di scegliere la vita», ha detto, quasi come un mantra.

E a tutto questo si aggiungeva l’angoscia della sua famiglia, sospesa tra speranza e terrore per oltre due anni. Indimenticabili le parole della madre, Idit Ohel, durante la prigionia del figlio, pronunciate con una dignità che sfidava l’impossibile: una donna che, pur divorata dall’apprensione, sceglieva ogni giorno l’autocontrollo e la forza, per non cedere all’oscurità che stava inghiottendo suo figlio.

VIDEO Le parole della mamma https://www.youtube.com/shorts/bzr5–ymJEw

Fratellanza nella sofferenza — la forza del legame umano

In quel tunnel di disperazione, Alon non era solo. Accanto a lui c’era Eli Sharabi, un altro ostaggio – più adulto di lui, un padre inaspettato in mezzo all’orrore. Sharabi, che aveva perso moglie e figli nell’attacco, divenne per lui una guida, un faro. «Ci siamo legati subito – ha raccontato Alon –. Quando non ce la facevo più, Eli mi ha abbracciato: è stato come il gesto di un padre».

Sharabi lo ha portato sulle spalle più di una volta. In quelle spalle, tremanti ma forti, Alon ha ritrovato la volontà di restare vivo. Hanno promesso – l’uno all’altro – di sopravvivere. Di non arrendersi mai. «Cadere è permesso – gli diceva Sharabi – ma perdere la speranza mai».

Quei legami – tenuti insieme dalla paura, dalla sofferenza, dalla solidarietà – sono diventati per Alon una ragione per andare avanti. Per non diventare un numero. Per resistere.

Il ritorno alla libertà — un uomo che sceglie di rinascere

Dopo due interminabili anni, la svolta: l’annuncio che sarebbe stato liberato. Scortato dal International Committee of the Red Cross, consegnato – finalmente – ai soldati israeliani. Quando li vide, capì che era salvo. Ma decise di non crollare davanti alla telecamera: voleva tornare “a testa alta”.

Dimenticare quell’inferno, non è stato, e non è, facile. Richiede determinazione e coraggio. Dall’immobilità forzata agli spostamenti repentini da un tunnel all’altro, Alon ha ripercorso i dettagli della sua liberazione. «Abbiamo viaggiato per ore prima di arrivare», ha raccontato. Il trasferimento sarebbe avvenuto proprio mentre l’esercito israeliano annunciava di essere entrato a Gaza City: i rapitori lo hanno usato come scudo umano.

Una volta in ospedale, un particolare ha colpito la famiglia: Alon camminava a piedi nudi. Quando il padre gli ha offerto dei calzini, lui ha risposto: «Voglio sentire la natura». «Ci siamo resi conto che il ragazzo che conoscevamo era tornato», ha detto quindi la famiglia con sollievo. Alon ha persino ripreso a suonare il pianoforte, ma gli effetti fisici della prigionia restano evidenti: l’occhio sinistro danneggiato, schegge su mani, petto e testa.

L’ospedale Beilinson di Petah Tikva, come riporta i24news, ha annunciato domenica che il giovane è stato sottoposto a due complessi interventi chirurgici: un intervento agli occhi e un intervento ortopedico alla spalla. L’intervento chirurgico alla spalla è stato eseguito dai dottori Yoav Rosenthal, Mark Lovenberg e Shay Ribenzaft, tutti chirurghi specializzati nel trattamento della spalla. L’intervento chirurgico agli occhi è stato eseguito dalla professoressa Irit Bahar, responsabile del reparto di oftalmologia del Beilinson, assistita dal dottor Asaf Dotan, responsabile dell’unità di retina.

VIDEO In elicottero con la famiglia per raggiungere l’ospedale https://www.youtube.com/shorts/tM6mjKPhIOs

VIDEO Alon Ohel torna a casa tra il pubblico in festa https://www.youtube.com/watch?v=QOVpvBnTBxA

 

Non è solo la sua storia. Altri sopravvissuti hanno parlato

I racconti degli altri ostaggi liberati risuonano con le sue stesse parole: fame estrema, catene, botte, totale assenza di cura medica. Come Or Levy – che insieme a Eli Sharabi aveva trascorso 491 giorni sotto terra, come alleati e testimoni di un inferno che chiede giustizia. Sharabi ha ben descritto le condizioni disumane: prigionieri costretti a dormire sul pavimento, a condividere una sola coperta, a sopravvivere con una pita al giorno. All’uscita, erano irriconoscibili, scheletri ambulanti, feriti e traumatizzati.

E le storie narrate non si limitano a piccole ferite: molti di loro portano ancora proiettili inesplosi nel corpo, ferite da schegge, traumi profondi, fisici e psicologici. Alcuni non hanno mai ricevuto cure adeguate.

 

Oggi: un’anima sopravvissuta con coraggio, speranza, dignità

Alon non è più un prigioniero. Non è più un numero. È un ragazzo ferito, ma vivo. Uno che ha visto l’abisso e ne è uscito con la determinazione di chi ha scelto di non essere spezzato. Nei suoi occhi – quando li apri – c’è ancora paura, certo. Ma c’è anche qualcosa di più potente: la volontà di rialzarsi.

Parole come «voglio riprendere a suonare il pianoforte», «voglio vivere», «voglio scegliere chi sono», «Andrò avanti. Conquisterò il mondo» – non sono retorica. Sono giuramenti fatti nel buio, nel dolore, nella disperazione. Ma fatti. Realizzati. Vissuti.

VIDEO La felicità dopo l’incubo. Cantare e suonare con la propria gente https://www.youtube.com/shorts/TKjBSZD9Ajk

 

E raccontare la sua storia – come fa oggi – significa tenere viva la memoria. Significa ricordare che, dietro i numeri, le cifre, le cronache, ci sono persone: giovani, padri, amici, sogni strappati. Perché se c’è una cosa che questi racconti insegnano – è che la dignità umana non si misura in libertà concessa o tolta. Ma in resistenza. In speranza. In decisione. In vita.

 

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