di Davide Cucciati
L’accordo relativo al conflitto in Gaza non sarebbe stato frutto della libera strategia del governo israeliano bensì di un’imposizione americana. In un editoriale pubblicato il 19 ottobre 2025 dal titolo esplicito “This is how the Americans turned Israel into a banana republic”, Ben-Dror Yemini sostiene che il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi non sarebbero stati possibili senza l’intervento diretto dell’amministrazione Trump. Non si è trattato, secondo la fonte, di semplice pressione diplomatica ma di un vero e proprio diktat: le decisioni chiave non sarebbero state prese a Gerusalemme ma a Washington. Eppure, secondo Ynet, solo il 14 agosto 2025, l’ufficio del Primo Ministro aveva pubblicato i “Cinque principi per porre fine alla guerra”:
- Disarmo di Hamas;
- Ritorno di tutti gli ostaggi, vivi e deceduti;
- Smilitarizzazione di Gaza;
- Controllo di sicurezza israeliano su Gaza e sul perimetro;
- Un’amministrazione civile alternativa, né Hamas né ANP.
“Questi cinque principi garantiranno la sicurezza di Israele. Questo è il significato di ‘vittoria’” recitava la nota ufficiale.
Tuttavia, a distanza di poche settimane, quei principi sono stati in gran parte abbandonati: il disarmo di Hamas non è avvenuto, il ritorno degli ostaggi deceduti è stato solo parziale, la smilitarizzazione è incerta, il controllo di sicurezza israeliano parrebbe escluso dall’accordo e l’Autorità Palestinese potrebbe essere comunque coinvolta nella gestione della Striscia. Una delle clausole dell’accordo, la numero 19, riconosce perfino il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione e alla statualità. Perché allora Netanyahu ha accettato tutto ciò che aveva respinto? Secondo Yemini, “gli americani non hanno dato mano libera a Netanyahu. Al contrario: l’hanno fermato. Hanno imposto la loro volontà. Hanno trasformato Israele in una repubblica delle banane.”
A confermare il clima teso, Israel National News ha riportato che “funzionari americani hanno espresso rabbia per la risposta israeliana alla violazione della tregua da parte di Hamas” che avrebbe causato circa 40 morti a Gaza: non vi sarebbe stata proporzionalità, secondo le fonti statunitensi.
Il governo israeliano, tuttavia, respinge con fermezza questa narrazione. Sempre secondo Israel National News, Netanyahu ha affermato: “Siamo uno Stato indipendente. Gli Stati Uniti non dettano la nostra politica.” Il premier ha espresso gratitudine per il sostegno militare e diplomatico ricevuto e ha definito il rapporto con Washington “una benedizione per lo Stato di Israele.”
Ciononostante, il dibattito resta acceso. Non a caso, il 23 ottobre 2025, il noto giornalista e analista politico Amit Segal ha pubblicato un tweet in cui contesta la versione della CNN, secondo la quale un funzionario USA avrebbe parlato apertamente di “Bibi-sitting”: “Per parafrasare Ron Dermer, leggere le notizie – specialmente in Medio Oriente – ci dice più su ciò che le persone pensano stia accadendo, che su ciò che accade davvero. Le continue visite di alto profilo sono volte a spingere il processo di normalizzazione tra Israele e altri Stati arabi e musulmani, approfittando della tregua, più che a controllare Netanyahu.”
Parallelamente, i giornali israeliani evidenziano che il governo ha minimizzato il voto simbolico alla Knesset per l’annessione della Giudea e della Samaria, definendolo una provocazione dell’opposizione durante la visita del vicepresidente JD Vance. Quest’ultimo ha criticato duramente il gesto, definendolo “una trovata politica stupida”, e ha ribadito che “la politica dell’amministrazione Trump è che la West Bank non sarà annessa da Israele.”
In questo scenario complesso, Israele si trova stretto tra la necessità di affermare la propria sovranità e il bisogno strutturale di cooperazione con Washington. Per Ben-Dror Yemini, la linea è stata superata: la pressione americana non è stata un consiglio ma un’imposizione. Per Netanyahu, invece, si tratta di collaborazione strategica. E per Segal, più che una supervisione, è una finestra diplomatica da sfruttare.
Tre visioni diverse. Ma tutte confermano che oggi, come spesso nella sua storia, il futuro di Israele continua a giocarsi anche, e forse soprattutto, a Washington.



