
Elezioni / Il 14 dicembre 2025 a Milano si vota per scegliere il nuovo Consiglio della Comunità. Ecco le liste e tutti i candidati. Mai come oggi l’importanza di votare si fa urgente, una priorità per tutti: andare alle urne per eleggere chi sarà chiamato a contrastare l’ondata di ostilità che da due anni ha assalito il mondo ebraico. Per vigilare
su sicurezza, correttezza dell’informazione, per costruire e rafforzare la rete di contatti con le istituzioni. E rendere più forte e unita la nostra Comunità realizzando progetti, eventi, occasioni di scambio e di incontro
Cara lettrice, caro lettore,
ci muoviamo con attenzione, a piedi nudi fra schegge di vetro, calpestiamo macerie a ogni passo, macerie reali, interiori, esistenziali, calcinacci come pezzi di vita svanita, paesaggi frantumati che non torneranno più. Accade a molti cittadini di Israele oggi, direi a quasi tutti. È accaduto a molti di noi, perché così vanno le cose. Eppure, mentre leggo le pagine dell’ex ostaggio Eli Sharabi, 54 anni, nel suo eccezionale memoir da poco tradotto in italiano (L’Ostaggio, Newton Compton), mi dico che le cose possono talvolta prendere una piega diversa. Nei mesi trascorsi nelle viscere dei tunnel di Hamas, anche Sharabi si è interrogato sul mistero del Male, il mistero degli scopi ultimi (e non sempre benevoli) che si danno gli esseri umani, le illusioni di cui si nutrono, come ad esempio credere di compiere il Bene operando il Male, insomma quell’incapacità di scegliere la vita e di stare “felici e fermi”, come usava dire Elsa Morante. Affanno, paura, buio, rabbia, ostinato rifiuto di arrendersi, fede; mai disperazione, mai rassegnazione: la speranza serve più della certezza, ripete Sharabi nel suo asciutto e toccante resoconto. Sharabi ne era quasi sicuro, sapeva che avrebbe potuto non uscirne vivo, reagiva alla fame e alle ferite ai piedi – procurate dalle catene -, insegnando l’inglese ai suoi giovani compagni di prigionia, ostaggi come lui catturati al Nova o nei kibbutzim; lui che non era mai stato religioso non riusciva a smettere di pregare. Il suo libro giunge oggi a testimonianza di uno dei periodi più duri della storia moderna del popolo ebraico.
La verità è che non possiamo vivere senza storie, ciò che accade diventa reale paradossalmente solo quando lo rievochiamo, quando diventa racconto. Le storie sono lo strumento di conoscenza più potente che ci sia, non sono intrattenimento ma un modo per abbracciare la realtà, percepirla, rivelarla, capirla, plasmarla, nasconderla se occorre (anche fuorviarla o manipolarla, ovviamente). Le storie catturano, accendono, incantano, toccano le corde più profonde. A volte prorompono, come è avvenuto per Eli Sharabi.
La speranza serve più della certezza. Una volta tornato, lui si è guardato intorno, il figlio di un paese-famiglia dove nessuno verrà lasciato solo, un paese dove non c’è stato nemmeno un giorno in cui non ci fosse un presidio in piazza, perfetti sconosciuti che erano lì per loro, gli ostaggi, perché così si fa in una famiglia.
Un libro che nasce dal dolore ma parla di rinascita. «Per 491 giorni ho implorato cibo, implorato di andare in bagno: l’accattonaggio è diventata la mia esistenza. Quando sono tornato pesavo 44 chili, uscivo da 50 metri sottoterra… Quando sono stato portato a Gaza cercavano di linciarmi, ero il loro trofeo». «… un vero cambiamento richiederà il rifiuto totale di una cultura che feticizza la morte e il risveglio del desiderio di abbracciare e celebrare la vita». Sharabi ha imparato che resistere non significa soltanto sopravvivere, ma continuare a credere nella possibilità del bene anche quando non si ha più nulla.
Il 7 ottobre Eli Sharabi aveva perso tutto (senza saperlo): moglie, due figlie adolescenti, un fratello. La speranza serve più della certezza: se lo dice lui allora vale la pena crederci.
Fiona Diwan



