Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Se Abramo rappresenta il nostro viaggio verso Dio, e Isacco il nostro dialogo con Dio, Giacobbe significa l’incontro di Dio con noi – non pianificato, non programmato, non previsto; la visione, la voce, la chiamata che non possiamo mai conoscere in anticipo, ma che ci lascia trasformati. Come per Giacobbe, così per noi. È come se ci svegliassimo da un sonno e ci rendessimo conto, come se fosse la prima volta, che “Dio era in questo luogo e io non lo sapevo.” (Foto: Marc Chagall “La scala di Jacob” (1973))
È una delle grandi visioni della Torà. Giacobbe, solo di notte, in fuga dall’ira di Esaù, si corica per riposare e non fa un incubo, ma un’epifania: Col tempo egli [Yaakov] capitò in un certo luogo [vayifga bamakom] e decise di passare lì la notte, perché il sole era tramontato. Prese alcune pietre del luogo e le mise sotto la sua testa, e in quel posto si coricò a dormire. E sognò: vide una scala poggiata sulla terra, la cui cima raggiungeva i cieli. Su di essa, angeli di Dio salivano e scendevano. Il Signore stava sopra di lui… (Genesi 28:11-13)
Poi Yaakov si svegliò dal suo sonno e disse: “Davvero, il Signore è in questo luogo – e io non lo sapevo!” Ebbe timore e disse: “Quanto è pieno di stupore questo luogo! Questo non è altro che la Casa di Dio, e questa è la porta dei Cieli!” (Genesi 28:16-17)
Sulla base di questo passo, i Saggi dissero che “Giacobbe istituì la preghiera della sera.” La deduzione si basa sulla parola vayifga, che può significare non solo “arrivò, incontrò, capitò, si imbatté”, ma anche “pregò, supplicò, implorò”, come in Geremia: “Non pregare per questo popolo, né innalzare un grido per loro, e non supplicare con Me… [ve-al tifga bi]” (Geremia 7:16).
I Saggi compresero anche la parola bamakom, “il luogo”, come significante “Dio” (il “luogo” dell’universo). Così Giacobbe completò il ciclo delle preghiere quotidiane. Abramo istituì shacharit, la preghiera del mattino; Isacco Mincha, la preghiera del pomeriggio; e Giacobbe fu il primo a stabilire Arvit, anche nota come Maariv, la preghiera del tempo notturno.
Questa è un’idea sorprendente. Benché ciascuna delle preghiere feriali sia identica nelle parole, ognuna porta il carattere di uno dei patriarchi. Abramo rappresenta il mattino. È l’iniziatore, colui che introdusse nel mondo una nuova coscienza religiosa. Con lui un giorno comincia.
Isacco rappresenta il pomeriggio. Non c’è nulla di nuovo in Isacco – nessuna grande transizione dall’oscurità alla luce o dalla luce all’oscurità. Molti degli episodi della vita di Isacco ricapitolano quelli di suo padre. La carestia lo costringe, come fece con Abramo, ad andare nella terra dei Filistei. Egli riaffiora i pozzi di suo padre. Quella di Isacco è l’eroicità silenziosa della continuità. Egli è un anello nella catena dell’alleanza. Collega una generazione alla successiva. Non introduce nulla di nuovo nella vita di fede, ma la sua vita possiede una sua nobiltà. Isacco è fermezza, lealtà, la determinazione a continuare.
Giacobbe rappresenta la notte. È l’uomo della paura e della fuga, l’uomo che lotta con Dio, con gli altri e con se stesso. Giacobbe è colui che conosce l’oscurità di questo mondo. C’è, tuttavia, una difficoltà con l’idea che Giacobbe abbia introdotto la preghiera serale. In un famoso episodio del Talmud, Rabbi Joshua sostiene che, a differenza di Shacharit o Mincha, la preghiera serale non è obbligatoria (anche se, come notano i commentatori, è divenuta obbligatoria tramite l’accettazione di generazioni di ebrei). Perché, se fu istituita da Giacobbe, non fu considerata portatrice della stessa obbligatorietà delle preghiere di Abramo e Isacco? La tradizione offre tre risposte.
La prima è che la visione secondo cui Arvit non è obbligatoria appartiene a coloro che ritengono che le nostre preghiere quotidiane si basino non sui patriarchi, ma sui sacrifici che venivano offerti nel Tempio. Vi era un’offerta del mattino e del pomeriggio, ma nessun sacrificio serale. Le due visioni differiscono precisamente in questo: per coloro che fanno risalire la preghiera al sacrificio, la preghiera serale è volontaria, mentre per quelli che la basano sui patriarchi, è obbligatoria.
La seconda è che esiste una legge per cui coloro che sono in viaggio (e per i tre giorni successivi) sono esentati dalla preghiera. Nei tempi in cui i viaggi erano pericolosi – quando i viandanti vivevano nel costante timore di attacchi dei predoni – era impossibile concentrarsi. La preghiera richiede concentrazione (kavanà). Perciò Giacobbe era esente dalla preghiera e offrì la sua supplica non come obbligo, ma come atto volontario – e così rimase.
La terza è che esiste una tradizione secondo cui, mentre Giacobbe stava viaggiando, “il sole tramontò all’improvviso” – non al suo orario normale. Giacobbe aveva intenzione di recitare la preghiera del pomeriggio, ma scoprì con sua sorpresa che era calata la notte. Arvit non divenne obbligatoria, poiché Giacobbe non aveva inteso recitare affatto una preghiera serale.
C’è, tuttavia, una spiegazione più profonda. Una costruzione linguistica diversa è usata per ciascuna delle tre occasioni che i Saggi considerarono come base della preghiera. Abramo “si alzò presto il mattino verso il luogo dove era stato davanti a Dio” (Genesi 19:27). Isacco “uscì a meditare [lasuach] nel campo sul far della sera” (Genesi 24:63). Giacobbe “incontrò, si imbatté, capitò” in Dio [vayifga bamakom]. Si tratta di diversi tipi di esperienza religiosa.
Abramo iniziò la ricerca di Dio. Egli fu una personalità religiosa creativa – il padre di tutti coloro che intraprendono un viaggio dello spirito verso una destinazione sconosciuta, armati solo della fiducia che coloro che cercano, trovano. Abramo cercò Dio prima che Dio cercasse lui.
La preghiera di Isacco è descritta come una sichà (letteralmente una conversazione o dialogo). Ci sono due parti in un dialogo – chi parla e chi ascolta e, dopo aver ascoltato, risponde. Isacco rappresenta l’esperienza religiosa come conversazione tra la parola di Dio e la parola dell’uomo.
La preghiera di Giacobbe è molto diversa. Egli non la inizia. I suoi pensieri sono altrove – su Esaù, da cui sta fuggendo, e su Labano, verso cui sta viaggiando. In questa mente tormentata arriva una visione di Dio e degli angeli e di una scala che collega terra e cielo. Egli non ha fatto nulla per prepararsi a ciò. È inaspettata. Giacobbe letteralmente “incontra” Dio come talvolta possiamo incontrare un volto familiare tra una folla di sconosciuti. Questo è un incontro provocato da Dio, non dall’uomo. Per questo la preghiera di Giacobbe non poté essere resa base di un’obbligazione regolare. Nessuno di noi sa quando la presenza di Dio irromperà improvvisamente nelle nostre vite.
C’è un elemento della vita religiosa che è oltre il controllo cosciente. Arriva dal nulla, quando meno ce lo aspettiamo. Se Abramo rappresenta il nostro viaggio verso Dio, e Isacco il nostro dialogo con Dio, Giacobbe significa l’incontro di Dio con noi – non pianificato, non programmato, non previsto; la visione, la voce, la chiamata che non possiamo mai conoscere in anticipo, ma che ci lascia trasformati. Come per Giacobbe, così per noi. È come se ci svegliassimo da un sonno e ci rendessimo conto, come se fosse la prima volta, che “Dio era in questo luogo e io non lo sapevo.” Il luogo non è cambiato, ma noi sì. Un’esperienza del genere non può mai essere resa oggetto di obbligo. Non è qualcosa che facciamo. È qualcosa che accade a noi. Vayifga bamakom significa che, mentre pensiamo ad altro, scopriamo di essere entrati nella presenza di Dio.
Tali esperienze avvengono – letteralmente o metaforicamente – di notte. Accadono quando siamo soli, impauriti, vulnerabili, vicini alla disperazione. È allora che, quando meno ce lo aspettiamo, possiamo trovare le nostre vite inondate dalla radiosità del Divino. All’improvviso, con una certezza inconfondibile, sappiamo di non essere soli, che Dio è lì e lo è stato per tutto il tempo, ma che eravamo troppo occupati dalle nostre preoccupazioni per accorgercene. È così che Giacobbe trovò Dio – non con i propri sforzi, come Abramo; non attraverso un dialogo continuo, come Isacco; ma in mezzo alla paura e all’isolamento. Giacobbe, in fuga, inciampa e cade – e scopre di essere caduto nelle braccia attente di Dio. Nessuno che abbia avuto questa esperienza la dimentica mai. “Ora so che Tu Dio eri con me per tutto il tempo, ma io guardavo altrove.”
Quella fu la preghiera di Giacobbe. Ci sono momenti in cui parliamo e momenti in cui ci viene parlato. La preghiera non è sempre prevedibile, una questione di tempi fissi e obbligo quotidiano. È anche apertura, vulnerabilità. Dio può coglierci di sorpresa, svegliandoci dal nostro sonno, afferrandoci quando cadiamo.
Di Rabbi Jonathan Sacks zzl



