Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Ciò che ci dicono i quattro episodi di Giacobbe, Lea, Tamar e Giuseppe è semplice e profondo: coloro che stanno davanti a Dio non hanno bisogno di travestimenti per raggiungere il proprio valore quando stanno davanti agli esseri umani.
Giuseppe è ora il governatore dell’Egitto. La carestia che aveva predetto si è avverata. Essa si estende oltre l’Egitto fino alla terra di Canaan. In cerca di cibo da comprare, i fratelli di Giuseppe intraprendono il viaggio verso l’Egitto. Arrivano al palazzo dell’uomo responsabile della distribuzione del grano: Ora Giuseppe era governatore del paese [Egitto]; era lui che distribuiva il cibo a tutto il popolo. Quando i fratelli di Giuseppe arrivarono, si prostrarono davanti a lui con la faccia a terra. Giuseppe riconobbe i suoi fratelli non appena li vide, ma si comportò come uno straniero e parlò loro duramente… Giuseppe riconobbe i suoi fratelli, ma loro non riconobbero lui. (Genesi 42:6–8)
Dobbiamo a Robert Alter (critico letterario e traduttore statunitense 1935-…) l’idea di una “scena-tipo”, un dramma che si ripete più volte con variazioni; e queste sono particolarmente evidenti nel libro di Bereshit. Non esiste una regola universale su come decifrare il significato di una scena-tipo. Un esempio è l’incontro “ragazzo-incontra-ragazza-al-pozzo”, che avviene tre volte: tra il servo di Abramo e Rebecca, Giacobbe e Rachele, e Mosè e le figlie di Ietro. Qui, l’ambientazione probabilmente non è significativa (i pozzi erano il luogo in cui gli stranieri si incontravano a quei tempi, come il distributore d’acqua in un ufficio). Ciò a cui dobbiamo prestare attenzione in questi tre episodi sono le loro variazioni: l’intraprendenza di Rebecca, la dimostrazione di forza di Giacobbe, la passione di Mosè per la giustizia. In altre parole, il modo in cui le persone si comportano verso gli stranieri presso un pozzo è una prova del loro carattere. In alcuni casi, tuttavia, una scena-tipo sembra indicare un tema ricorrente. È questo il caso qui. Se vogliamo comprendere cosa è in gioco nell’incontro tra Giuseppe e i suoi fratelli, dobbiamo metterlo a confronto con altri tre episodi, tutti presenti in Bereshit.
Il primo si svolge nella tenda di Isacco. Il patriarca è anziano e cieco. Dice al figlio maggiore di andare nei campi, catturare un animale e preparare un pasto affinché possa benedirlo. Con sorprendente rapidità, Isacco sente entrare qualcuno. «Chi sei?» chiede. «Sono Esaù, tuo figlio maggiore», risponde la voce. Isacco non è convinto. «Avvicinati e lascia che ti tocchi, figlio mio. Sei davvero Esaù o no?» Allunga la mano e sente la ruvida consistenza delle pelli che coprono le sue braccia. Ancora incerto, chiede di nuovo: «Ma sei davvero mio figlio Esaù?» L’altro risponde: «Lo sono». Così Isacco lo benedice: «Ah, l’odore di mio figlio è come l’odore di un campo benedetto da Dio». Ma non è Esaù. È Giacobbe travestito.
Seconda scena: Giacobbe è fuggito a casa di suo zio Labano. Arrivato lì, incontra e si innamora di Rachele e offre di lavorare per suo padre per sette anni per poterla sposare. Il tempo passa rapidamente: gli anni «gli sembrarono pochi giorni perché l’amava». Si avvicina il giorno delle nozze. Labano organizza un banchetto. La sposa entra nella sua tenda. A tarda notte, Giacobbe la segue. Ora finalmente ha sposato la sua amata Rachele. Quando arriva il mattino, scopre di essere stato vittima di un inganno. Non è Rachele. È Lea travestita.
Terza scena: Giuda ha sposato una donna cananea ed è ora padre di tre figli. Il primo ha sposato una donna del luogo, Tamar, ma è morto misteriosamente giovane, lasciando la moglie vedova e senza figli. Seguendo una versione pre-mosaica della legge del matrimonio leviratico, Giuda diede in moglie a Tamar il suo secondo figlio affinché potesse avere un figlio «per mantenere vivo il nome di suo fratello». Il secondo marito di Tamar non voleva avere un figlio che, di fatto, sarebbe appartenuto al fratello defunto, così «sparse il suo seme», e per questo morì anche lui giovane. Giuda allora è riluttante a dare a Tamar il suo terzo figlio, e così lei rimane un’agunà, «incatenata», legata a qualcuno che le è impedito sposare e impossibilitata a sposare chiunque altro.
Passano gli anni. La moglie di Giuda muore. Tornando a casa dalla tosatura delle pecore, egli vede una prostituta velata ai bordi della strada. Le chiede di giacere con lui, promettendo come pagamento un capretto del gregge. Lei gli chiede il suo «sigillo con il suo cordone e il suo bastone» come garanzia. Il giorno seguente egli manda un amico a consegnare il capretto, ma la donna è scomparsa. La gente del posto nega ogni conoscenza di lei. Tre mesi dopo, Giuda sente dire che la sua nuora Tamar è rimasta incinta. Si infuria. Essendo legata al suo figlio più giovane, non le era permesso avere relazioni con nessun altro. Doveva essere colpevole di adulterio. «Portatela fuori perché sia bruciata», dice. Viene condotta a morte, ma chiede un favore. Dice a uno dei presenti di portare a Giuda il sigillo, il cordone e il bastone. «Il padre del mio bambino», dice, «è l’uomo a cui appartengono questi oggetti». Immediatamente Giuda comprende. Tamar, impossibilitata a sposarsi, ma vincolata dall’onore ad avere un figlio per perpetuare la memoria del suo primo marito, ha ingannato il suocero inducendolo a compiere il dovere che avrebbe dovuto permettere al figlio più giovane di compiere. «Ella è più giusta di me», ammette Giuda. Credeva di essersi unito a una prostituta. Ma era Tamar travestita.
Questo è il contesto in cui deve essere compreso l’incontro tra Giuseppe e i suoi fratelli. L’uomo davanti al quale i fratelli si prostrano non somiglia affatto a un pastore ebreo. Parla egiziano. È vestito con le vesti di un sovrano egiziano. Indossa l’anello con sigillo del faraone e la catena d’oro dell’autorità. Pensano di trovarsi alla presenza di un principe egiziano, ma è Giuseppe – il loro fratello – travestito.
Quattro scene, quattro travestimenti, quattro incapacità di vedere oltre la maschera. Che cosa hanno in comune? Qualcosa di davvero sorprendente. È solo non venendo riconosciuti che Giacobbe, Lea, Tamar e Giuseppe possono essere riconosciuti, nel senso di essere ascoltati, presi sul serio, considerati. Isacco ama Esaù, non Giacobbe. Giacobbe ama Rachele, non Lea. Giuda pensa a suo figlio più giovane, non alla condizione di Tamar. Giuseppe è odiato dai suoi fratelli. Solo quando appaiono come qualcosa o qualcuno di diverso possono ottenere ciò che cercano: per Giacobbe, la benedizione del padre; per Lea, un marito; per Tamar, un figlio; per Giuseppe, l’attenzione non ostile dei suoi fratelli. La condizione di questi quattro individui è riassunta in un’unica frase toccante: «Giuseppe riconobbe i suoi fratelli, ma loro non riconobbero lui».
I travestimenti funzionano? Nel breve periodo, sì; ma nel lungo periodo, non necessariamente. Giacobbe soffre molto per aver preso la benedizione di Esaù. Lea, pur sposando Giacobbe, non conquista mai il suo amore. Tamar ebbe un figlio (in realtà, due gemelli) ma Giuda «non ebbe più rapporti con lei». Giuseppe – ebbene, i suoi fratelli non lo odiavano più, ma lo temevano. Anche dopo le sue assicurazioni di non nutrire rancore, continuarono a pensare che si sarebbe vendicato di loro dopo la morte del padre. Ciò che otteniamo con il travestimento non è mai l’amore che cercavamo.
Ma accade qualcos’altro. Giacobbe, Lea, Tamar e Giuseppe scoprono che, anche se non riusciranno mai a conquistare l’affetto di coloro da cui lo cercano, Dio è con loro; e questo, in definitiva, è sufficiente. Un travestimento è un atto di nascondimento – dagli altri, e forse da se stessi. Da Dio, tuttavia, non possiamo, né abbiamo bisogno di, nasconderci. Egli ascolta il nostro grido. Risponde alla nostra preghiera inespressa. Presta attenzione a chi non viene ascoltato e porta loro conforto.
Nel seguito dei quattro episodi, non vi è una guarigione delle relazioni, ma vi è una ricomposizione dell’identità. È questo che li rende non racconti secolari, ma cronache profondamente religiose di crescita e maturazione psicologica. Ciò che ci dicono è semplice e profondo: coloro che stanno davanti a Dio non hanno bisogno di travestimenti per raggiungere il proprio valore quando stanno davanti agli esseri umani.
Scritto da Rabbi Jonathan Sacks nel 2012



