Rev. Albert Lee Wagner, "Flee from Egypt", 1975

Parashat Behaalotekhà. Il vero leader è colui che ispira gli altri e li responsabilizza

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
L’ebraismo riguarda la responsabilità diffusa, il far contare ogni individuo, la costruzione di squadre coese basate su una visione condivisa, l’educazione delle persone al massimo del loro potenziale, e il valore del confronto onesto e della dignità del dissenso. È questa la cultura che i rabbini hanno instillato nei secoli della diaspora. (Foto: Rev. Albert Lee Wagner, “Flee from Egypt”, 1975)

 

Fu il punto emotivamente più basso nella vita di Mosè. Dopo il dramma al Sinai, la Rivelazione, il Vitello d’Oro, il perdono, la costruzione del Tabernacolo e i codici lunghi quanto un libro sulla purezza e la santità, tutto ciò a cui il popolo riesce a pensare è il cibo.

“Chi ci darà carne da mangiare? Ci ricordiamo del pesce che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio! Ma ora la nostra gola è secca. Non c’è nulla da vedere se non questa manna.” (Numeri 11:5–6)

Era abbastanza per far cadere chiunque nella disperazione, persino Mosè. Ma le parole che egli pronuncia sono sconvolgenti. Egli dice a Dio: “Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato favore ai tuoi occhi, tanto da porre su di me il peso di tutto questo popolo? Sono forse io ad aver concepito tutto questo popolo? Sono forse io ad averlo partorito, perché tu mi dica: ‘Portalo sul tuo seno, come una nutrice porta un neonato’?… Non posso portare da solo tutto questo popolo; è un peso troppo grande per me. Se è così che mi tratti, uccidimi pure – se ho trovato favore ai tuoi occhi – e non mi far vedere la mia miseria!” (Numeri 11:11–15)

Queste parole meritano la massima attenzione. Inevitabilmente ci soffermiamo sull’ultima affermazione, il desiderio di Mosè di morire. Ma in realtà non è questa la parte più interessante del suo discorso. Mosè non fu l’unico leader ebreo a pregare di morire. Anche Elia lo fece. Anche Geremia. Anche Giona. Guidare è difficile; guidare il popolo ebraico è quasi impossibile. È una storia antica, e non edificante.

Il vero interesse risiede altrove, quando Mosè dice: “Perché mi dici di portarli sulle mie braccia, come una nutrice porta un neonato?” Ma Dio non ha mai usato queste parole. Non ha mai nemmeno lontanamente suggerito una cosa simile. Dio chiese a Mosè di guidare, ma non gli disse come guidare. Gli disse cosa fare, ma non discusse il suo stile di leadership.

L’uomo che diede a Mosè la sua prima lezione di leadership fu suo suocero Itrò, che lo mise in guardia contro il rischio di esaurimento che ora sta vivendo. “Ciò che fai non è bene. Finirai per logorarti, tu e questo popolo con te. È un compito troppo gravoso per te. Non puoi portarlo da solo.” (Esodo 18:17–18)
Poi gli disse di delegare e condividere il suo fardello con una squadra di leader, proprio come Dio sta per fare nella nostra Parashà.

È interessante notare che lo scoraggiamento di Mosè avviene subito dopo che, alla fine del capitolo precedente, leggiamo della partenza di Itrò. Qualcosa di molto simile accade più avanti nella Parashat Chukat (Numeri 20). Prima leggiamo della morte di Miriam. Subito dopo segue la scena di Merivà, quando il popolo chiede acqua e Mosè perde la pazienza e colpisce la roccia, l’atto che gli costerà la possibilità di guidare il popolo oltre il Giordano nella Terra Promessa. Sembra che, in modi diversi, Itrò e Miriam fossero per Mosè sostegni emotivi essenziali. Quando c’erano, lui reggeva. Quando non c’erano, perdeva il controllo. I leader hanno bisogno di anime affini, persone che sollevino il loro spirito e diano loro la forza di andare avanti. Nessuno può guidare da solo.

Ma tornando al discorso di Mosè a Dio, forse la Torà qui sta alludendo al fatto che il modo in cui Mosè concepiva il ruolo del leader era esso stesso parte del problema. “Ho forse concepito io tutto questo popolo? L’ho forse partorito io? Perché mi dici di portarli in braccio, come una nutrice porta un neonato?” Questo è il linguaggio del leader-come-genitore, la teoria del “Grande Uomo” della leadership.

Basandosi sulle teorie di Gustave Le Bon (antropologo francese 1831-1941) e della “mente collettiva,” e andando oltre, Sigmund Freud sostenne che le folle diventano pericolose quando sale al potere un certo tipo di leader. Un leader di questo tipo, spesso altamente carismatico, risolve le tensioni all’interno del gruppo facendo credere di avere la soluzione a tutti i loro problemi. È forte. È persuasivo. È chiaro. Offre un’analisi semplice delle sofferenze del popolo. Identifica nemici, concentra energie, fa sentire il popolo unito, completo, parte di qualcosa di grande. “Lasciate fare a me,” sembra dire. “Tutto ciò che dovete fare è seguire e obbedire.”

Mosè non fu mai quel tipo di leader. Disse di sé stesso: “Non sono un uomo di parole.” Non era particolarmente vicino al popolo. Aronne lo era. Forse anche Miriam. Caleb aveva il potere di calmare il popolo, almeno temporaneamente. Mosè non aveva né il dono né il desiderio di trascinare le folle, risolvere complessità, attrarre un seguito di massa o guadagnare popolarità. Ma non era quel tipo di leader che gli Israeliti avevano bisogno, ed è per questo che Dio scelse Mosè: non un uomo in cerca di potere, ma uno con un bruciante senso di giustizia e una passione per la libertà.

Mosè, tuttavia, sembra aver pensato che il leader dovesse fare tutto: doveva essere padre, madre e nutrice del popolo. Doveva essere colui che fa, colui che risolve, onnisciente e onnipotente. Se qualcosa doveva essere fatto, spettava al leader – rivolgendosi a Dio e chiedendo il Suo aiuto – farlo.

Il problema è che se il leader è un genitore, allora i seguaci rimangono bambini. Dipendono totalmente da lui. Non sviluppano competenze proprie. Non acquisiscono senso di responsabilità né la fiducia in sé stessi che nasce dall’esercitarla. Così, quando Mosè non c’è – è salito sulla montagna da molto tempo e non si sa cosa gli sia accaduto – il popolo va nel panico e costruisce un Vitello d’Oro. Ed è per questo che Dio dice a Mosè di radunare una squadra di settanta leader per condividere con lui il fardello. Non cercare nemmeno di fare tutto da solo.

La teoria del “Grande Uomo” della leadership perseguita la storia ebraica come un incubo ricorrente. Ai tempi di Samuele, il popolo crede che tutti i suoi problemi saranno risolti se nominerà un re “come tutte le altre nazioni.” Invano, Samuele li avverte che ciò peggiorerà solo le cose. Saul ha l’aspetto giusto, bello, retto, “più alto di una testa rispetto a chiunque altro” (cfr. I Samuele 9), ma gli manca forza di carattere. David commette adulterio. Salomone, benedetto con saggezza, viene sedotto dalle sue mogli fino alla follia. Il regno si divide. Solo pochi re successivi sono all’altezza della sfida morale e spirituale di coniugare la fede in Dio con una politica di realismo e virtù civica.

Durante il periodo del Secondo Tempio, il successo dei Maccabei fu drammatico ma di breve durata. I re asmonei stessi si ellenizzarono. L’ufficio di Sommo Sacerdote divenne politicizzato. Nessuno riuscì a contenere le fratture crescenti all’interno della nazione. Dopo aver sconfitto i Greci, la nazione cadde in mano ai Romani. Sessant’anni dopo, Rabbi Akiva identificò Bar Kochbà come un altro “grande uomo” sul modello di Giuda Maccabeo, e il risultato fu la più grande tragedia della storia ebraica fino alla Shoah.

L’ebraismo riguarda la responsabilità diffusa, il far contare ogni individuo, la costruzione di squadre coese basate su una visione condivisa, l’educazione delle persone al massimo del loro potenziale, e il valore del confronto onesto e della dignità del dissenso. È questa la cultura che i rabbini hanno instillato nei secoli della diaspora. È così che i pionieri hanno costruito la terra e lo Stato d’Israele in epoca moderna. È la visione che Mosè ha articolato nell’ultimo mese della sua vita nel libro di Devarim.

Questo richiede leader che ispirino altri con la loro visione, che delegano, responsabilizzano, guidano, incoraggiano e creano spazio. Questo è ciò a cui Dio allude quando dice a Mosè di prendere settanta anziani e lasciarli stare con lui nella Tenda del Convegno. Poi: “Io scenderò e parlerò con te lì, prenderò parte dello spirito che è su di te e lo porrò su di loro. (Numeri 11:17)

Dio stava dicendo a Mosè che i grandi leader non creano seguaci; creano leader. Condividono la loro ispirazione. Donano del proprio spirito agli altri. Non vedono il popolo che guidano come bambini che hanno bisogno di un padre-madre-nutrice, ma come adulti che devono essere educati a prendersi la responsabilità individuale e collettiva del proprio futuro.

Le persone diventano ciò che il loro leader dà loro lo spazio per diventare. Quando quello spazio è grande, essi crescono nella grandezza.

Scritto da Rabbi Sacks nel 2012