Rabbini e comunità: riflessioni dal Moked

Ebraismo

di Dino Foa

“Siete qui per la Salsa?” La domanda del barista ci coglie di sorpresa. Lui ci crede qui a Milano Marittima per il festival del Ballo Sudamericano, ci spiega che la Salsa si balla vicini, uomo e donna insieme, ma è lui che guida.

Fuori piove, il mare è ostile, insieme ci dovremo stare anche noi, non abbiamo scelta.

Ma  siamo anche noi qui per essere vicini, senza ballare,  per stare insieme anche se diversi. E poi  noi non siamo tanto diversi, ce lo ripetiamo molte volte, così alla fine ci crediamo.

In questo incontro del Moked (svoltosi dall’1 al 4 maggio, ndr) si parla di rabbini con i rabbini, con quelli che qui trovi e non ti aspetti (ma non trovi quelli che ti aspetti). Che cosa deve fare un rabbino per la sua comunità? Deve essere un pastore di anime. Ci riesce? Non sempre. Il rapporto tra i rabbini e le loro comunità è diventato in questi anni sempre più difficile, a volte pare un dialogo fra sordi. I primi sono diventati col tempo più rigorosi – o più preparati  a seconda dei punti di vista – mentre dall’altra parte  ci sarebbe stato un percorso inverso, e quindi il gap si è allargato.

Fare i rabbini nelle piccole comunità non interessa più, i nuovi diplomati del Collegio Rabbinico preferiscono incarichi ministeriali a Roma piuttosto che affrontare la sfida di rivitalizzare le periferie. Temono  forse l’isolamento o la mancanza di prospettive professionali.  A loro volta le famiglie difficilmente considerano la professione di Rabbino come una valida scelta per i figli, e li spingono su altre strade.

Ma i rabbini servono e per spiegarlo Rav Della Rocca racconta del Rebbe che per far rinsavire il figlio del re che si atteggiava a gallo si mise a fare il gallo pure lui, per portarlo fuori dalla caverna in cui si era cacciato. Ma se da una parte chi vuole essere leader spirituale deve sapere  ascoltare, sintonizzarsi sulle varie frequenze che si trovano nelle comunità, dall’altra questo deve avvenire senza farsi  condizionare: la guida spirituale deve cioè mantenere la sua condotta, non deve adattarsi al contesto.

Da parte delle Comunità la richiesta espressa è di maggiore accoglienza per chi è meno preparato, per chi si perde durante le funzioni, e non ha il coraggio di alzare la mano e di chiedere che cosa si sta leggendo e a che pagina.

Non è solo un problema per chi sta affrontando il lungo percorso del Ghiur, riguarda tutti quegli ebrei che vengono al tempio solo di Kippur, in tempo per sentire la Nehilà e il suono dello Shofar.

Ma anche da chi come Chabad da sempre predica e pratica l’accoglienza non viene una risposta risolutiva, se non l’esortazione a non chiedere soltanto, ma a rendere noi stessi protagonisti verso gli altri, sapendo che il Rabbino non avrà mai la possibilità materiale di seguire individualmente tutti i membri della Comunità.

L’obbligo dello studio è per tutti gli ebrei, non solo per i rabbini. Paradossalmente la risoluzione del problema del rapporto tra la base e la rispettiva  leadership passa attraverso l’affrancamento delle Comunità dai Rabbini, che può esserci solo quando tutti seguiranno l’obbligo dello studio.

Si riparte senza risposte, gli interrogativi sono rimasti tutti.

Chissà come è andata a quelli del ballo.